Nel Mount Rushmore dei grandi personaggi della storia dell’Olimpia, Cesare Rubini non potrebbe mancare. Non è nato nell’Olimpia come il suo delfino Sandro Gamba, non era milanese e arrivò all’allora Borletti nel 1947 quando aveva 25 anni. In quel momento, il triestino Rubini era già un giocatore della Nazionale italiana (nel 1946 vinse l’argento europeo a Ginevra, perdendo la finale contro la Cecoslovacchia) e anche un grande giocatore di pallanuoto. Nel 1948, dopo la sua prima stagione a Milano, gli dissero di scegliere. Le Olimpiadi estive erano l’unico momento in cui non poteva permettersi di giocare sia a basket che a pallanuoto (Canottiere Olona, Camogli e Rari Nantes Napoli sono state le sue squadre). C’erano i Giochi di Londra, i primi del dopoguerra. Rubini scelse di giocare a pallanuoto, nel primo Settebello della storia dello sport italiano. Tornò da Londra con la medaglia d’oro al collo. Quattro anni dopo vinse quella di bronzo. Fu anche Campione d’Europa. E infatti è stato incluso nella Hall of Fame degli sport d’acqua. Si trova a Fort Lauderdale, in Florida, vicino a Miami. Quando venne eletto era già stato nominato nella Hall of Fame del basket a Springfield. Cal Hubbard è stato un giocatore di baseball e football e fa parte – unico – della Hall of Fame di entrambi gli sport. Ma nessun europeo c’è mai riuscito. E nessun altro americano o di qualsiasi altra provenienza. E le enormi differenze tra i due sport, basket e pallanuoto rendono l’impresa unica.

Rubini scoprì il basket a Trieste quando arrivarono gli americani, lui si definiva un uomo cresciuto in un porto. Aveva già venti anni quando cominciò a giocare. Arrivò a Milano su proposta di Adolfo Bogoncelli, altro membro del Mount Rushmore di cui sopra. È stato lui a inventare l’Olimpia che conosciamo: era trevigiano, e aveva fatto basket prima a Modena, poi a Como e a Milano, ma con una squadra di triestini. Infine, di fatto aldilà di complicate ricostruzioni storiche, la sua squadra prese il posto del Borletti, la famosa all’epoca Borolimpia, ereditandone la sponsorizzazione e gli scudetti che erano già stati vinti ai tempi di Giannino Valli come allenatore, Sergio Paganella e Enrico Castelli come giocatori simbolo. Bogoncelli scelse Rubini per guidare il suo progetto. Rubini era di fatto tutto, allenatore, giocatore, poi manager. Incredibilmente, ha avuto successo in tutti i ruoli. Cinque dei suoi scudetti li ha vinti da giocatore-allenatore, i 10 seguenti li ha vinti come allenatore. Sandro Gamba era la sua estensione in campo, poi il suo primo grande assistente quando smise di giocare. Un binomio che ha fatto le fortune dell’Olimpia prima e della Nazionale poi. Gamba era l’uomo della tattica, degli allenamenti, era il conoscitore di avversari e giocatori da portare a Milano. Rubini era una presenza, era carisma, intimidazione, era un motivatore. Ha allenato tutti i grandi giocatori dell’Olimpia di quegli anni in cui in sostanza, in media, vinse uno scudetto ogni tre campionati. Segio Stefanini, Romeo Romanutti, Enrico Pagani, Sandro Gamba, poi Gianfranco Pieri che arrivò da centro e venne trasformato in un playmaker, Gabriele Vianello, Paolo Vittori, Sandro Riminucci, Massimo Masini, Giulio Iellini, Pino Brumatti, Renzo Bariviera, Paolo Bianchi, Vittorio Ferracini. Si parla di almeno quattro generazioni di giocatori.

Cesare Rubini da giocatore con il 9 del Simmenthal contro il Real Madrid

Se il greco Mimi Stephanidis fu il primo straniero allenato da Rubini, il primo americano fu Ron Clark, pivot bianco transitato per Kentucky. Dopo di lui arrivarono George Bon Salle di Loyola-Chicago che fu scelto al numero 7 dei draft NBA ma non andò mai a giocarci preferendo dopo Milano la Industrial League a Denver dove lo pagavano e gli davano un lavoro (nel 1959 vinse anche i Giochi Panamericani), e Pete Tillotson, da Michigan (Capitano dei Wolverines), che venne a Milano perché un infortunio gli consigliò di rinviare di un anno l’approdo a Syracuse nella NBA. Quindi, la Federazione chiuse le porte agli stranieri e nel 1964 l’Olimpia diventata Simmenthal raggiunse una semifinale di Coppa dei Campioni con una squadra tutta italiana, diretta da Rubini, perdendola con un Real Madrid imbottito di naturalizzati. Due anni dopo, riaperte le frontiere, Rubini convinse Bill Bradley e giocare la Coppa a Milano e Skip Thoren a giocare da noi la sua prima stagione da professionista. Il risultato fu la più grande stagione della carriera di Rubini da allenatore, culminata con la conquista della Coppa dei Campioni. E fu ancora lui a portare in Italia, dietro i suggerimenti di Gamba, americani che hanno fatto epoca come Austin Robbins, Steve Chubin, fino ad Arthur Kenney, per molti il suo giocatore preferito per lo spirito indomito. Kenney, per difendere Rubini, aggredito da un giocatore slavo a tradimento in una gara di Coppa delle Coppe contro la Stella Rossa a Belgrado, andò in tribuna, sfidando la Polizia locale ai tempi della Guerra Fredda, per inseguire il colpevole.

La squadra dei primi anni ’70 vinse anche due Coppe delle Coppe, giocò tre spareggi consecutivi contro Varese vincendone uno. L’ultimo nel 1973, perso, fu il più doloroso. Per uno scherzo del destino, la sconfitta più difficile da digerire ebbe luogo nello stesso impianto bolognese, Piazza Azzarita, in cui Rubini aveva ottenuto nel 1966 il suo successo più eclatante, la Coppa dei Campioni. Dopo quella partita, allenata contro il grande Asa Nikolic, Gamba – stanco di aspettare il proprio turno – se ne andò a Varese. Rubini rimase ancora un anno poi decise di ritirarsi, dopo 26 anni in panchina. Anagraficamente ne aveva solo 51. Nel 1979 si riunì a Gamba in Nazionale. E nel 1980 vinse la sua terza medaglia olimpica, l’unica nel basket, a Mosca quando l’Italia si qualificò per la finale battendo a casa sua l’Unione Sovietica. Per molti, è stata la più grande vittoria nella storia della squadra azzurra. Rubini c’era anche nel 1983 a Nantes, quando per la prima volta l’Italia diventò Campione d’Europa. Quando venne incluso nella Hall of Fame, alla cerimonia, fece morire di invidia tutti i presenti (con lui c’era Chuck Daly, due volte Campione NBA con Detroit, coach del Dream Team di Barcellona 1992) perché a salutarlo via video intervenne, su assist di Bill Bradley, allora Senatore democratico del New Jersey, fu Bill Clinton, che all’epoca era alla Casa Bianca. Rubini era questo.

Alla fine del suo discorso quando venne ammesso alla Hall of Fame ha pronunciato, in italiano, c’era Sandro Gamba a fare da interprete, una frase che si adatta perfettamente alla giornata di domenica 2 ottobre quando il parquet dell’Olimpia diventerà il “Cesare Rubini Court”: “Questo giorno dovrà essere sempre così nella mia memoria: stupendo e affascinante”.

Cesare Rubini con Arthur Kenney, il giocatore che incarnava il suo spirito

Cesare Rubini

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