Novanta anni di storie e di passione. L’Olimpia Milano il prossimo 9 gennaio 2026 festeggia i 90 anni di attività. Il 18 dicembre 1968 nasceva a Milano, Riccardo Pittis, uno dei grandi prodotti del vivaio dell’Olimpia. La sua storia comincia da bambino, prosegue con tanti trionfi e a Milano finisce con la conquista della Coppa Korac 1993. Ecco il suo racconto.
Duemilacinquecentosettanta punti. Duecentessessantanove presenze in Serie A. Ottantaquattro presenze nelle coppe europee con ottocentosessantatre punti segnati. Sono i numeri crudi di Riccardo Pittis con l’Olimpia Milano. Difficile identificare il palmares personale perché tecnicamente ha debuttato in prima squadra nel gennaio del 1985, quindi abbastanza presto da poter rivendicare quattro scudetti, due Coppe Korac, una da teen-ager e l’altra da Capitano, due Coppe dei Campioni, una da comprimario e una da protagonista, due Coppe Italia, una Coppa Intercontinentale e un’altra Final Four nel 1992 che resta una ferita aperta. Come aperta è la ferita di quando venne convocato per sentirsi dire – fulmine a ciel sereno – che sarebbe stato ceduto a Treviso. Che c’erano ragioni di bilancio a suggerire la rinuncia. E lui, Ricky Pittis, milanese e tifoso dell’Olimpia, da sciarpa e cappellino biancorossi, non la prese bene. Non la prese bene perché pensava, sognava, sperava, che la sua carriera potesse scorrere tutta all’Olimpia. “A quei tempi era possibile, si poteva fare”, ricorda. Sarebbe stato un caso unico, riproducibile solo agli albori del club.
“Casalini e Cappellari allenavano mio fratello Carlo. Un giorno suggerirono a mia madre di lasciarglielo: mi avrebbero stancato loro. Diciamo che ero agitato. La mia storia con l’Olimpia è nata così”
Riccardo Pittis
Quindi, Riccardo, sei nato nell’Olimpia: giusto?
“Andavo a vedere le partite di mio fratello Carlo che giocava nell’Olimpia e ha sette anni più di me. Ero un bambino piccolo e parecchio agitato. Non riuscivo a stare fermo. Al tempo, c’erano regole molto più flessibili di adesso. Parliamo degli anni 70. Ad ogni pausa della partita io prendevo un pallone, entravo in campo e iniziavo a tirare. Ogni tanto entravo, anche se la partita non era ancora stata sospesa o era già ricominciata. Insomma, faticavano a tenermi fermo a bordo campo. Gli allenatori all’epoca erano Franco Casalini e Toni Cappellari. Allenavano la squadra di mio fratello. Un giorno andarono da mia madre e le dissero “Guardi, facciamo una cosa, lei ce lo porta e noi glielo stanchiamo bene, lo facciamo allenare con quelli più grandi”. E così è stato. Ma io sono del 1968 e la squadra con i ragazzi più giovani era composta da elementi del 1964, quindi praticamente all’inizio io prendevo solo botte e dovevo stare zitto. Stavo zitto e continuavo a prenderle. Però li ha prevalso l’istinto di sopravvivenza. L’alternativa era soccombere. Io invece sono sopravvissuto, sono rimasto in piedi, e poi è stato lo stesso quando sono arrivato in prima squadra”.


Ti ricordi l’esordio, accanto ai nostri sacri dell’Olimpia di allora?
“Anche questa è una storia ridicola nel senso che eravamo nel 1985; io non mi ero neanche mai allenato con la prima squadra. Ricevetti una telefonata all’ora di pranzo dopo aver finito la scuola dall’allenatore dell’epoca, Beppe Barbara. Mi disse: “Guarda che stasera devi andare a fare la partita della prima squadra”. Io ho pensato che fosse tutto come al solito, che sarei andato a pulire il campo con gli spazzoloni. Invece mi disse, “no, no, forse non hai capito bene, devi andare a giocare”. Mario Pettorossi, che era il decimo uomo, era infortunato. Quello è stato l’esordio al Palazzone di San Siro. Ripeto, eravamo a gennaio. Una settimana dopo è crollato il tetto…”

Ma è vero che all’epoca tentavi di imitare il tuo idolo Magic Johnson e un giorno McAdoo ti prese da parte per spiegarti che non voleva passaggi strani perché c’era da vincere la partitella di allenamento?
“Avevo due idoli, Magic Johnson e Mike D’Antoni. Con la mia altezza, giocando playmaker, è vero che cercavo di imitare Magic Johnson ma non essendo Magic Johnson, spesso i risultati del mio atteggiamento erano drammatici e la faccia dei miei compagni di squadra ogni tanto veniva colpita improvvisamente da un razzo aria-aria lanciato dalle mie mani. Sì, ero il Magic Johnson italiano ma con risultati diversi. Tant’è che non c’era dubbio che non mi sarei mai permesso all’epoca di fare passaggi dietro la schiena. Non era solo McAdoo, c’erano anche tutti gli altri che mi avrebbero crocifisso. McAdoo voleva vincere anche a biglie contro suo figlio, aveva questo terrificante spirito competitivo. Ai tempi scommettevamo sulle partitelle in allenamento e lui diceva sempre, a noi ragazzini, “don’t fuck with my money”. E capivi che dovevi impegnarti”.

Com’era essere allenato da Dan Peterson, assieme ad un gruppo di campioni?
“Per me erano momenti surreali perché io il giorno prima di allenarmi con quei campioni, ma anche dopo, ero stato un tifoso dei miei compagni. Ogni tanto mi fermavo e mi capitava di pensare che mi stavo allenando con i miei idoli. È stata una grande fortuna: entrare in quella squadra, con Dan Peterson allenatore era come passare dalle elementari all’università in un solo giorno. Credo di aver imparato di più in quei primi due anni con loro che in tutto il resto della mia carriera”.
Hai detto che l’altro tuo idolo era Mike D’Antoni.
“Quando guardavo le partite da ragazzino, diciamo da quando ho iniziato un po’ a capire la pallacanestro, in realtà guardavo due partite. Una era quella che guardavano tutti. E l’altra, come se avessi avuto una telecamera puntata, guardavo solo la partita di Mike per vedere quello che faceva lui perché mi faceva impazzire il suo gioco. Poi mi ha preso sotto la sua ala, insegnandomi tanto senza insegnarmi nulla, ovvero solo con l’esempio. Averlo avuto come compagno di squadra mi ha consentito di capire cosa vuol dire essere un campione, cosa vuole dire giocare ad alto livello, cosa volesse dire soprattutto essere un giocatore dell’Olimpia. Valeva anche per gli altri, ma lui, secondo me, aveva già in mente cosa ci sarebbe stato nel suo futuro, ovvero trasformarsi da giocatore in allenatore da un anno con l’altro”.

Nella tua lunga storia con l’Olimpia, la partita di cui tutti parlano è quella con Caserta nel 1987, Gara 3. Siete avanti 2-0 nella serie, ma i veterani sono sulle gambe, Caserta va avanti di 18. E la sensazione era che, se avesse vinto, avrebbe vinto anche lo scudetto. E non ci sarebbe stato il Grande Slam. E non ci sarebbe stata neanche la Coppa dei Campioni successiva visto che era aperta solo alle squadre campioni. Quella partita la cambiò un ragazzino: Riccardo Pittis.
“Ero in una sorta di trans agonistica, quelle situazioni in cui senti che qualsiasi cosa provi a fare ti riesce bene. La fortuna ha voluto che fosse la partita delle partite e devo dire che ne conservo un ricordo meraviglioso. Per me è stata in un certo senso la consacrazione. Avevo già giocato durante l’anno anche se in genere pochi minuti però dopo quella partita anche i miei compagni di squadra hanno cominciato a guardarmi diversamente, hanno visto un giocatore anziché il ragazzino alle prime armi. Ecco, quella partita ha segnato la mia carriera in maniera profonda”.
“La finale del 1987 per me è stata la consacrazione. Dopo quella partita anche i miei compagni hanno cominciato a guardarmi diversamente: non ero più solo un ragazzino promettente”
Riccardo Pittis sulla finale del 1987
La Coppa dei Campioni l’hai vinta due volte. Ma è stata quella del 1988 la tua vera Coppa dei Campioni, giusto?
“A Losanna, avevo giocato qualche minuto ma a Gand sono stato in campo minuti importanti; quindi, è stata effettivamente la mia vera Coppa dei Campioni. La sento ancora dentro l’anima: se chiudo gli occhi mi sembra di rivivere quei momenti finali quando si è scatenato un pandemonio emotivo con i tifosi, compagni, è stato tutto incredibilmente bello”.
Fu il primo anno di Franco Casalini come capo allenatore.
“Franco è stato bravo perché arrivare dopo Dan Peterson e dopo tanti anni da assistente, il passaggio sapeva che sarebbe stato delicato. Ha fatto passare subito e bene il messaggio giusto, cioè che non era più il vice ma il capo allenatore. Lui aveva un rapporto soprattutto con i veterani di un certo tipo ma anche con loro ha cambiato subito atteggiamento. C’erano rapporti umani, amichevoli, che ha dovuto modificare, mettere dei paletti ben precisi, e l’ha fatto bene”.
L’ultimo scudetto quel gruppo l’ha vinto nella storica partita di Livorno.
“Era un gruppo con una forza interiore incredibile. Avevano vinto tutto, erano vicini ai 40 anni, potevano tranquillamente lasciar perdere, invece non mollavano proprio mai. E guarda che quella serie è stata incredibile. Abbiamo vinto a Livorno la terza partita, quindi, giocando la quarta in casa, pensavamo di vincere, che fosse la notte in cui avremmo festeggiato lo scudetto. Invece, ci massacrano, perdiamo e, a quel punto, andare a giocare la quinta a Livorno, in quelle condizioni, all’età dei nostri elementi di riferimento, appunto, con un caldo pazzesco, avrebbe richiesto energie che non so davvero dove possano averle trovate. Avevano una lucidità straordinaria, e la mantenevano fino alla fine. Da questo episodio capisci perché hanno fatto quello che hanno fatto, perché sono la nostra storia”.

Poco dopo Mike D’Antoni passò dal campo direttamente in panchina.
“Racconto un aneddoto che tra l’altro spiega bene come sono cambiate le abitudini. Al tempo il giorno della partita si poteva bere il vino a tavola a pranzo. Ok? Avete capito bene? Si poteva bere il vino a tavola a pranzo il giorno della partita. Bene, andiamo a giocare in trasferta, non ricordo dove, e ordiniamo il vino, perché l’avevamo sempre fatto. Arriva il cameriere e ci dice che è dispiaciuto ma non può portarcelo. E poi spiega: il Signor D’Antoni ha detto che non potete berlo. Ci guardiamo tra di noi e poi ci voltiamo tutti verso Mike. Pensavamo a uno scherzo. Invece, tutto serio, ci disse “da oggi niente vino, ragazzi”. Mise subito in chiaro che eravamo amici ma il rapporto doveva cambiare”.
In quel primo anno di D’Antoni coach arrivaste alla finale senza mai perdere in casa e poi ci fu la fatale Gara 5 con Caserta.
“È stato il più grande dolore sportivo di tutta la mia carriera, perché sarebbe stato veramente la realizzazione di un sogno. Eravamo una squadra nuova, teoricamente di scappati di casa perché all’inizio della stagione se n’erano andati tutti i grandi vecchi. Noi non avevamo esperienza da protagonisti o quantomeno non tutti l’avevano, e Mike era al primo anno in panchina. Nessuno ci metteva tra i favoriti invece fu una grande stagione, vincemmo tutte le partite in casa, e poi abbiamo perso proprio l’ultima. Personalmente, ma direi a tutta la squadra, è crollato il mondo sotto i piedi perché eravamo convinti di riuscire a vincerla. Ora posso anche dire, dopo tanto tempo, che sono contento che abbia vinto Caserta. Ha meritato perché aveva giocato meglio di noi e poi perché era veramente tanti anni che ci provavano senza riuscirci. Meritavano di farcela. Quella finale e la semifinale di Eurolega del 1992 a Istanbul sono state le delusioni più forti”.
“Da tifoso guardavo due partite: una era quella che osservavano tutti, l’altra era quella di Mike D’Antoni. Non gli staccavo gli occhi di dosso”
Riccardo Pittis sulla sua passione per Mike D’Antoni
In questo contesto vincere la Coppa Korac nel 1993 che significato ha avuto?
“Per me terapeutico. Dopo aver vinto tanto nella prima parte della mia carriera, ma grazie soprattutto ai miei compagni di squadra, nel momento in cui sono andati via ci sono state solo sconfitte dolorose, come appunto quella con Caserta e quella con il Partizan alle Final Four, un anno abbastanza insulso. Poi è arrivata questa Coppa che mi ha fatto ritrovare sicurezza e soprattutto è stata un premio per quella squadra, per Sasha Djordjevic, Antonello Riva, che meritavano di vincere qualcosa, anche se poi si fece male Antonio Davis e in campionato andammo fuori subito”.

Ecco, D’Antoni sostiene che con Davis forse ce l’avrebbe fatta a vincere lo scudetto da allenatore a Milano come poi avrebbe fatto due volte a Treviso.
“Io so che stavamo giocando bene e che avremmo dato fastidio a tanti, poi non so se avremmo vinto lo scudetto. C’erano altre squadre forti, ma non saremmo andati fuori subito di sicuro. E ai tempi non sapevo, non immaginavo, che sarebbe stata la mia ultima stagione all’Olimpia”.
“Mi consideravo una bandiera dell’Olimpia. Mi sarebbe piaciuto trascorrere tutta la carriera nella mia squadra. La cessione mi ha ferito”
Riccardo Pittis sul suo addio
La cessione ti ha ferito?
“È stato un evento traumatico per usare un eufemismo. Era l’ultima cosa che pensavo potesse succedere. Pensavo fosse uno scherzo. Successe all’improvviso: era un venerdì e il sabato era programmata la chiusura dei trasferimenti. Mi chiamarono il povero Enzino Lefebre, il general manager, e Mike. Ci trovammo ai giardinetti di Corso Indipendenza a Milano. E mi dissero “guarda che dobbiamo cederti a Treviso, perché c’è questo buco di bilancio eccetera eccetera”. Io sono veramente entrato in una sorta di incubo. Non pensavo potesse essere vero. Poi a posteriori è stata una grande fortuna perché a Treviso ho avuto una seconda carriera e vissuto grandi esperienze, ma in quel momento non potevo saperlo e fu dura accettarlo”.
Immaginavi di poter spendere tutta la carriera all’Olimpia?
“Mi sarebbe piaciuto, anche perché a quei tempi c’era la possibilità di poter trascorrere tutta la carriera in una sola squadra. Adesso non è realizzabile, ma al tempo le bandiere c’erano davvero. Ecco, io mi consideravo in un certo senso una bandiera dell’Olimpia. Era sempre stata la mia squadra, sono nato cestisticamente dentro l’Olimpia, da tifoso, e quindi, sì, immaginavo quel tipo di carriera. Con il senno di poi dico che va bene così, ma mi sarebbe piaciuto”.
