Novanta anni di storie e di passione. L’Olimpia Milano il prossimo 9 gennaio 2026 festeggia i 90 anni di attività. Il 16 dicembre 1984, venne annunciato l’ingaggio di uno dei più grandi americani mai venuti in Italia, Joe Barry Carroll. Ecco la storia di quella stagione.
Quando ha aperto il suo account Facebook, Joe Barry Carroll è rimasto sorpreso di scoprire quanta gente dall’Italia si ricordasse di lui o di quanto ancora fosse vivo il suo ricordo. Ha giocato un anno a Milano, 25 partite di campionato e una manciata in Coppa Korac. Uno scudetto e una coppa vinti: “Ho una medaglia per la conquista della Coppa Korac – dice -, ma il merito fu di Russ Schoene. Siamo ancora amici”. Dal 1985, Carroll è tornato a Milano solo una volta, nel 2019, prima del COVID, un breve viaggio per ricevere l’applauso del suo pubblico, rivedere luoghi che gli sono rimasti cari, riabbracciare i compagni di allora: “Sento di aver fatto parte di qualcosa di grande, di speciale. La mia squadra a Milano era speciale”.

Ma come è possibile che Joe Barry Carroll abbia giocato a Milano? Lui che era una star in America? Prodotto dall’università di Purdue, nell’Indiana, nel suo ultimo anno di college aveva portato i Boilermakers fino alle Final Four. E aveva abbastanza classe ed eleganza da essere scelto nel 1980 al numero 1 del draft NBA. “Joe Barry Carroll è il centro più dotato di talento che abbia mai visto dopo Bill Walton”, disse il leggendario allenatore di Syracuse, Jim Boeheim dopo che JB gli aveva segnato 28 punti.
I diritti sulla scelta numero 1 nel 1980 appartenevano ai Boston Celtics, ma con una magata che sarebbe passata alla storia, il grande general manager Red Auerbach li cedette ai Golden State Warriors in cambio di Robert Parish e della scelta numero 3 ovvero Kevin McHale. In un attimo mise assieme due terzi dei “Big Three” che a Boston avrebbero vinto tre titoli, il primo proprio l’anno successivo. Carroll invece iniziò una carriera NBA ricca di statistiche di alto livello, roba importante, ma pochissime vittorie e soprattutto lo stigma di essere stato il grande errore di Golden State.
In realtà le cose erano andate in modo diverso: i Warriors erano in difficoltà economiche, Robert Parish stava per entrare nel suo ultimo anno di contratto e il club capì che non avrebbe mai potuto permettersi il rinnovo. In pratica sostituirono Parish con Carroll, un giocatore molto più giovane e rinunciarono alla scelta numero 3 che i Celtics utilizzarono per prendere McHale. I Warriors ottennero anche la scelta numero 13: Rickey Brown. Uno degli scambi più significativi nella storia della NBA incluse due futuri giocatori dell’Olimpia (Brown giocò da protagonista nella squadra che vinse il titolo europeo nel 1988). Carroll firmò un quadriennale da 1.5 milioni di dollari che sarebbe scaduto nel 1984. Fu allora che la trattativa per il rinnovo del contratto di JB a Golden State entrò in una fase di stallo. L’anno prima di venire a Milano, Carroll aveva segnato 20.5 punti di media nella NBA. Erano stati 24.1 due anni prima.
“Ho avuto la sensazione di far parte di qualcosa di speciale. La mia squadra di Milano era speciale. Eravamo ragazzi che stavano bene insieme, ma in campo ci trasformavamo. Mike D’Antoni ad esempio era una belva”
Joe Barry Carroll
“Il mio contratto era in scadenza – ricorda Carroll – Non volevano pagarmi quanto meritavo, ma non potevo andarmene e non volevo stare fermo tutto l’anno. La stagione era cominciata un paio di mesi prima. Il mio agente mi propose Milano e venni. Avevo giocato in Nazionale, sapevo che gli europei erano bravi a correre e a tirare. All’inizio non ero in forma, ero fermo da tanti mesi, ma il Coach Peterson – un allenatore speciale, uno studioso del gioco, che sapeva tutto e sapeva indicarti sempre cosa fare, chi imitare – e la squadra, loro furono generosi, ad aiutarmi. Dopo un paio di mesi abbiamo preso il volo”. Carroll perse la prima partita a Milano, in casa con Caserta. La sera andò alla Domenica Sportiva: era nervoso, timido. John Ebeling, che allora giocava a Firenze, fece da interprete. Si concesse con poche parole: oggi è molto diverso, loquace, la risata interrompe spesso le sue riflessioni, che sono quelle di un uomo di cultura, intelligente, impegnato.
“L’idea di portare Carroll a Milano fu del suo agente – ricorda Gianmario Gabetti, il presidente dell’Olimpia all’epoca – Seguirono una serie di confronti interni perché l’impegno economico era importante e non eravamo sicuri di potercelo permettere. Ma trovammo la soluzione”. “Per lui dovetti tagliare Wally Walker: non ha mai capito perché”, ricorda Coach Peterson. Quella squadra era talmente forte che avrebbe probabilmente vinto comunque. Ma Carroll andava oltre certe valutazioni.


Con Carroll, l’Olimpia vinse lo scudetto e fu la prima squadra a completare i playoff senza sconfitte. Dopo la vittoria di Pesaro, l’ultima partita della stagione, prima di tornare in America, regalò un orologio a tutti i compagni, in segno di ringraziamento, di affetto. “Sono ancora amico di Mike D’Antoni. Fuori del campo, è educato, ha modi garbati. Ma in campo era una bestia. Lui era il nostro leader. Sono felice che abbia avuto una grande carriera nella NBA da allenatore, ma non mi sorprende. Coach Peterson? È stato fondamentale per me. Che fosse un americano ha certamente aiutato, come mi ha aiutato D’Antoni. Non so fare un confronto, perché Peterson è l’unico allenatore che abbia avuto in Europa, ma lui è stato in grado di farmi rendere al meglio. Quella squadra era bellissima, una squadra di ragazzi che si divertivano stando insieme, ma quando andavano in campo diventano belve come Mike D’Antoni. Il ricordo più forte che ho di quella stagione non è stato tanto la vittoria, anche se ha significato molto, ma il tempo passato con gli altri ragazzi. Raccontavo ai miei amici di Roberto Premier: un pazzo, ma quando si accendeva… non ho visto tanti tiratori come lui in vita mia, nemmeno nella NBA. Quando abbiamo vinto lo scudetto ho tirato un sospiro di sollievo. Ero nervoso fin dall’inizio, perché la squadra aveva già vinto tanto prima che arrivassi io e non volevo diventare un elemento di disturbo, volevo essere parte di quella storia, non distruggerla. Non volevo dicessero che erano andati bene fino a quando ero arrivato io. In quel momento ho capito che ce l’avevo fatta ed è stato un sollievo”.
“Quando ci fu l’occasione di prendere Joe Barry Carroll, esitammo: non eravamo sicuri di potercelo permettere. Poi riuscimmo a trovare una soluzione”
Gianmario Gabetti, Presidente dell’Olimpia nel 1984/85
La beffa fu il crollo della copertura del Palazzone di San Siro: l’Olimpia contava molto sugli incassi per coprire l’investimento su Carroll invece si trovò a dover girare la città a caccia di un impianto. Andò al Palalido per un periodo poi al Palatenda di Lampugnano per finire la stagione. “Carroll aveva un bonus pubblico che dopo il crollo del palasport svanì nel nulla. Era il più arrabbiato di tutti per quel che successe”, ride Mike D’Antoni. “Quando giocammo la finale di Coppa Korac – ricorda Gabetti – era preoccupato di infortunarsi su quel campo chiaramente irregolare. Non gliene faccio una colpa, aveva ragione. Per quello giocò male quella partita. Fortuna, vincemmo lo stesso”.

A Joe Barry pesa non aver mai avuto la possibilità di vincere un titolo NBA, “ma perché succeda i pianeti devono allinearsi e i miei non si sono allineati. Se Boston avesse tenuto la prima scelta e avessi giocato con Larry Bird… ma non ho mai guardato indietro, sono contento della carriera che ho avuto. Ho fatto le Final Four a Purdue, ho vinto a Milano, so che avrei potuto vincere anche nella NBA. Il soprannome di Joe Barely Cares è stato una vergogna: ero al mio terzo anno nella Lega, attraversavo un momento difficile, non mi entrava nulla. Ero timido e non capivo a 23-24 anni l’importanza di ciò che esiste attorno al gioco, l’importanza di parlare con i media. Ma se me ne fossi fregato non avrei segnato oltre venti punti di media, catturato oltre dieci rimbalzi per gara. Bastava analizzare la situazione: da una parte hai un’etichetta e dall’altra fatti oggettivi che la smentiscono”.
Carroll ha giocato nell’era d’oro dei centri NBA. Ha incrociato le armi con Kareem Abdul-Jabbar (“Il suo gancio cielo era perfetto, nessuno l’ha mai stoppato”), con Artis Gilmore, con Moses Malone (“Fortissimo, era sempre in movimento, non lo prendevi mai e andava sempre a rimbalzo”), con i giovani Hakeem Olajuwon e Patrick Ewing (“Fisicamente mostruoso”): “Loro erano in grado di segnare 20-25-30 punti contro di me, ma io riuscivo a fare altrettanto contro di loro”, ricorda.
“Il soprannome di Joe Barely Cares è stato una vergogna. Se me ne fossi fregato, avrei segnato oltre 20 punti a partita nella NBA? Avrei giocato una Final Four a Purdue? Avrei vinto a Milano? Ci sono le etichette e fatti che le smentiscono”
Joe Barry Carroll
A Milano non poteva rimanere più di un anno. “Era fuori contesto in Europa”, ricorda Gabetti. Tornò a Golden State con il contratto che voleva. La stagione successiva segnò 21.2 punti per gara; lo stesso fece nel 1986/87 quando venne convocato per l’All Star Game. Poi venne ceduto a Houston dove giocò insieme ad Olajuwon con un ruolo inferiore rispetto al precedente, quello che aveva ai Warriors. Ha giocato 705 partite NBA, con 17.7 punti di media. In tutto ha guadagnato sei milioni di dollari, tanti per l’epoca. Oggi sono cifre che farebbero sorridere.
Dopo essersi ritirato, Joe Barry Carroll ha avuto successo anche fuori del campo, inizialmente dedicandosi all’attività di consulente finanziario per giocatori della NFL (football) oltre che della NBA. “Quando sei stato professionista tanto a lungo, se hai avuto cura dei tuoi guadagni, hai delle opzioni, puoi scegliere cosa fare, com’è capitato a me”. Oltre all’attività finanziaria, con il tempo Carroll ha scoperto talento come pittore (“Fino a cinque anni fa non l’avrei mai detto, dimostra che nella vita non si finisce mai di imparare e bisogna cogliere al volo le occasioni”), come autore (“Ho sempre letto, ho sempre avuto un libro con me, ma anche qui da poco ho capito di poter scrivere: ho pubblicato due libri, lo stile è Mark Twain, anche in questo sono in competizione con Kareem, anche se lui scrive di fiction o autobiografie”) ed editore.

