Il posto si chiama Graffignana, in provincia di Lodi, una località di nemmeno 3.000 abitanti, a quaranta chilometri dal centro di Milano. E’ qui che è nato uno dei più grandi giocatori mai espressi dalla pallacanestro italiana: Danilo Gallinari. Aveva 18 anni quando in una semifinale di Coppa Italia segnò 29 punti in trasferta a Bologna contro la Virtus. La stagione successiva segnò 17.5 punti per gara in Serie A, fu primo assoluto nella valutazione media e in EuroLeague vinse il trofeo di “Rising Star”, giocatore emergente. Non aveva ancora compiuto 20 anni quando giocò la semifinale scudetto con l’Olimpia. L’allenatore era Attilio Caja. Quello dell’esordio in Serie A era Sasha Djordjevic. Quando Giorgio Armani nel 2008 divenne proprietario dell’Olimpia, Danilo stava per spiccare il volo per l’America, dove è rimasto dal 2008 appunto al 2024, 777 partite di regular season, 11.607 punti segnati. Il secondo italiano, Marco Belinelli, ha segnato 8.370 punti. Andrea Bargnani, che è stato una prima scelta assoluta, ne ha segnati 7.873. Gallinari è stato il più grande giocatore italiano nella NBA. Ma è una definizione limitativa. E’ stato un giocatore generazionale, fantastico.


Oggi che ha annunciato il suo ritiro a 37 anni di età, si può sottilizzare sulle vittorie – un titolo giovanile a Casalpusterlengo, un titolo nella lega portoricana a Bayamon proprio allo scadere della carriera – o sulle occasioni perse di un niente (si è infortunato quando avrebbe potuto giocare per il titolo NBA con Denver nel 2013 e dieci stagioni più tardi con i Boston Celtics) – ma la verità unica è che Danilo Gallinari è stato il prodotto di un nuovo ecosistema in cui i giocatori europei più forti – o troppo bravi per rimanere da questa parte dell’oceano – la carriera la trascorrono nella NBA e solo i Nowitzki, gli Jokic possono vincere da protagonisti. Gli altri devono trovare le condizioni giuste. La fortuna. Aver trascorso 16 stagioni nella NBA è stato un successo, a prescindere, per Gallinari.

Il padre Vittorio è stato uno dei pilastri della cultura Olimpia degli anni ’80, un difensore arcigno che ha costruito la carriera annullando i giocatori di talento, cancellando le star come Danilo Gallinari. Gallo era un’altra cosa come giocatore: alto 2.08, elegante, fluido, con una tecnica eccezionale, un tiro senza difetti. Scelse di tesserarsi per l’Olimpia quando era già un prospetto ricercato da tutta Europa per una questione d’amore, per una questione di famiglia. Giocò a Pavia in prestito, ma Sasha Djordjevic lo fece debuttare ai massimi livelli e un anno dopo con Attilio Caja diventò una star assoluta. Era uno dei quattro moschettieri azzurri di quella generazione di campioni: Andrea Bargnani nato nel 1985; Marco Belinelli del 1986; Gigi Datome del 1987 e Danilo, che è nato nel 1988.

Come Bargnani e Belinelli era troppo per l’Europa e “purtroppo” troppo anche per l’Olimpia. Nel 2008 si dichiarò per i draft NBA con due stagioni di anticipo rispetto al suo anno di nascita. I New York Knicks lo selezionarono al numero 6. Solo Bargnani è stato scelto più in alto. Ironia della sorte, il suo primo allenatore fu Mike D’Antoni, l’ex playmaker e capitano dell’Olimpia di Vittorio. Sfortunatamente il suo primo anno nella NBA fu condizionato dal primo infortunio (riuscì a giocare solo 28 gare), ma già al secondo anno era l’ala titolare dei New York Knicks: 74 gare in quintetto e 15.1 punti per gara. La stagione successiva – dopo aver giocato a Milano con la maglia dei Knicks in amichevole! – andò in quintetto 48 volte su 48 (15.9 punti per partita) quando venne coinvolto in uno scambio epocale. I Knicks ottennero dai Denver Nuggets la star Carmelo Anthony e in cambio dovettero mandare in Colorado una contropartita costruita attorno a Danilo, che aveva tutta la carriera davanti. Quelli seguenti sono stati gli anni migliori di Danilo, nonostante una stagione persa per un altro infortunio. A Denver ha giocato 303 partite di cui 264 in quintetto con 16.2 punti di media. Ma ha avuto stagioni grandiose anche ai Los Angeles Clippers (due anni, 89 presenze tutte in quintetto, 18.7 punti per gara), a Oklahoma City (un anno, 18.7 di media), ad Atlanta (due stagioni a 12.4 di media, generalmente da sesto uomo) dove ha giocato una finale di conference perdendola contro i futuri campioni di Milwaukee.

Nel 2010/11 quando la NBA si fermò alcuni mesi, Danilo Gallinari spese il suo “lockout” giocando per l’Olimpia otto partite di campionato e sette di EuroLeague (16.2 punti di media). Quella del 1° dicembre 2011 a Milano contro il Real Madrid (13 punti, 17 di valutazione) fu la sua ultima partita in Europa, l’ultima con la maglia biancorossa dell’Olimpia. In un universo parallelo magari esiste un Gallinari un pochino meno bravo, che ad un certo punto rientra in Italia e finisce la carriera nella “sua!” squadra, nella sua città, davanti alla sua gente. Ma è andata così e non cambia il rapporto profondo che ha sempre legato Danilo all’Olimpia Milano.
Per chi ha assistito a certi momenti, non c’è mai stato nulla di più bello di vedere Gallinari a fine partita muoversi verso la curva, farsi consegnare una bandiera e sventolarla come un tifoso. Quello che poi è sempre stato. Uno di noi. “Atuttomotore” per sempre.
