Questo profilo di Adolfo Bogoncelli, straordinario, è stato pubblicato sul numero 30 della rivista Pallacanestro Olimpia Milano, Basket Show, nell’ottobre 1989 a firma di Aldo Giordani.
La passione per il basket era nata in lui quando frequentava a Modena gli studi universitari. Non poteva giocare per via dei postumi di una grave malattia infantile che lo faceva zoppicare, ma era sempre in palestra, era sempre con i suoi compagni di studi e di vita goliardica, con gli amici che formavano la squadra.
Benestante, originario di Treviso, pagava le trasferte e aveva comperato di sua tasca le dieci maglie gialle. Datava da quell’epoca la sua fraterna amicizia con Alberto Rognoni, ancora oggi eminente figura della federazione di calcio. E furono quelli primi passi di Adolfo Bogoncelli nel basket.
Poi il vertice della guerra, gli anni bui, la tragedia dovunque. Il dopoguerra lo trovò a Milano, giovane e già affermato industriale nei tempi sempre duri della rinascita. Conosceva tutti, e tutti lo conoscevano, chiamandolo affabilmente “il popolare Bigoncia”. C’era un gruppo di giocatori triestini che, profughi dalla loro città, avevano creato una squadra a Como. Questa squadra si fuse poi con il Borletti, così ebbe nuova linfa quell’Olimpia che ancora oggi è sulla cresta dell’onda.
Nel suo ufficio di Ripa Ticinese, vicino al locale dove adesso usano ristorarsi i giocatori milanesi, cominciarono a vedersi i Rubini, Miliani, Pitacco, Sumberaz che dovevano formare la trave portante di una formazione destinata a diventare una dinastia. E già allora, in giorni in cui il basket non era niente, e quasi non esisteva, Bogoncelli guardava avanti, “sentiva” il fausto domani di questo sport, a quei tempi pressoché sconosciuto, o poco più che dopolavoristico.
Bogoncelli indicò e apri la strada. Come tutti i precursori, fu anche avversato da coloro che faticavano a tenere il passo; ma tenne duro e tirò diritto sul suo cammino. Allora si giocava per lo più all’aperto, e lui portò la squadra in un padiglione della Fiera Campionaria, per quei tempi qualcosa di avveniristico. Allora si giocava con le maglie di cotonina, e lui iniziò la moda delle maglie in tessuto sgargiante. Allora si giocava con anonime scarpe da ginnastica, solo un po’ più alte, e lui lanciò in Italia le scarpe da basket colorate, tanto che ancora oggi la formazione milanese è celebre come quella delle “scarpette rosse”.
Enunciare queste cose oggi non fa più impressione, perché sembrano di poco conto e di non ardua applicazione. Ma bisogna riandare alla mentalità di quei tempi: ogni innovazione era una rivoluzione, una “rottura” alle volte traumatica con usanze di decenni. Le tute erano blu per tutti, ed eccole tutte rosso-bianche, i calzoni attillati, i nomi sulle maglie mai viste in precedenza: tutte novità apportate da Bogoncelli, alcune prese dagli Stati Uniti (che allora erano un altro mondo , col quale solo pochi super-fortunati erano in contatto), altre ideate dalla sua mente. Siccome il basket, sui giornali, era relegato a poche righe in corpo piccolissimo (quando c’erano) Bogoncelli fondò un settimanale, affidandone la direzione a Emilio De Martino, il più popolare giornalista dell’epoca. il quale – intuendo a proprio volta la forza di seduzione del “nuovo” sport – pubblicò con frequenza costante le prime pagine a colori di basket in Italia. E poi ci furono l’organizzazione del Trofeo Mairano, con relativo opuscolo ricchissimo di grandi firme di ogni sport, dopo l’avventurosa chiamata dei Globetrotters in Italia, che era una specie di salto nel buio, perché nessuno sapeva che impatto avrebbero avuto. Bogoncelli andò a vederli a Ginevra e ne restò conquistato. Bisogna qui ricordare che allora gli atleti di colore non erano ammessi nello sport professionistico, quando i migliori cestisti neri erano negli Harlem, uno squadronissimo paragonabile ai Lakers di oggi. Bogoncelli li scritturò immediatamente, pagò di sua tasca il lauto ingaggio, ma ebbe buon fiuto e il rischio andò a buon fine, perché nel 1951 (!) c’erano quindicimila spettatori per sera al Vigorelli.
Ma la caratteristica principale di Bogoncelli, in un certo senso la sua benemerenza più grande, fu la paterna assistenza che diede a tutti i suoi giocatori (i quali all’inizio erano, poco più poco meno, suoi coetanei) per aiutarli a inserirsi nella vita. Dopo, è ovvio che ciascuno abbia volato secondo i propri vanni. Ma il trampolino di lancio ci fu per tutti. Basterà ricordare i casi di Stefanini, che rientrò dal Brasile come “emigrato di ritorno”, e che gli fu vicinissimo per tutta la vita, fino a diventare lui stesso un dovizioso uomo d’affari, o il caso di Ricky Pagani, lui pure vicinissimo nel lavoro a Bogoncelli fino all’ultimo, ma da giovane molto incerto nella strada da intraprendere. Per lui Bogoncelli le sperimentò tutte. E invitò una volta a colazione in casa propria il regista Castellani che cercava un giovane per affidargli il ruolo di protagonista in un suo film; e lo indusse a scegliere proprio Pagani per “I sogni nel cassetto” con Lea Massari. Ma tutti, proprio tutti, ebbero la loro brava opportunità, ovviamente commisurata alle doti e alle capacità dei singoli; e tutti furono messi in grado di volare al meglio da soli.
Nel basket la presidenza Bogoncelli va ricordata per un record mondiale ben difficilmente battibile: per trentadue anni formò un tandem inscindibile con un solo allenatore, Cesare Rubini; e l’avvicendamento avvenne solo perché quest’ultimo decise di ritirarsi dalla panchina. Ma di sostituire l’allenatore, Bogoncelli non ebbe mai neanche la più lontana tentazione. È vero che Rubini gli vinceva molto, com’è vero che il presidente metteva a disposizione del coach i pezzi più pregiati. Però ci furono anche i giorni neri, che furono sempre superati senza dar adito a polemica alcuna. Sul piano tecnico circa i nuovi da inserire, decideva il tecnico. Ma sul piano umano – che era prevalente – l’ultima decisiva parola spettava al presidente. Che era un uomo e poteva anche sbagliare, come quando scartò un giocatore (che doveva poi diventare uno dei migliori d’Italia) perché al colloquio attitudinale non lo vide abbastanza pronto e maturo. Non era, il suo, un sistema infallibile; era però un sistema abbastanza sicuro, che diede frutti copiosi.
Lasciamo stare il numero degli scudetti vinti, che fanno di Bogoncelli il presidente più “tricolore” d’Italia. Diciamo dei colpi di talento che restano nella storia del nostro basket. Tutti ricorderanno la storia di Bill Bradley. Fu Tino Rodi a fargli balenare l’idea, ma fu Bogoncelli a realizzarla. Il fuoriclasse americano aveva deciso, finita l’università, di non passare subito al professionismo, ma di prendere una seconda laurea ad Oxford, in Inghilterra. Perché non proporgli di venire ogni tanto a Milano e di fare con il Simmenthal la Coppa Campioni? Il ragazzo – già allora personaggio eccezionale (oggi è Senatore degli Stati Uniti) – disse di sì. E cominciò così la stagione italiana (a spizzichi e bocconi) del più grande giocatore che abbia mai calcato con una certa continuità i nostri parquet.
Coloro che ebbero l’avventura di vedere i suoi allenamenti, i suoi incredibili “uno- contro-uno,” le sue “impossibili” serie finali di dieci su dieci al tiro (senza di che – fosse anche mezzanotte – l’allenamento non poteva terminare) non le dimenticarono più. Malgrado la preparazione fosse superficiale e in certi periodi dell’anno (quelli degli esami invernali) addirittura nulla, le esibizioni di Bradley restano la cosa più grande vista in Italia nel basket. E la prima Coppa dei Campioni per il nostro Paese poté essere vinta.
In tutta la presidenza di Bogoncelli non si sentì mai uno screzio con qualche giocatore, non si sentì di qualche divergenza col tecnico, non si seppe mai di un dissapore qualunque. In società ce ne saranno ovviamente stati, ma non superò mai la porta della sede. Fra lui e Rubini si era creato un affiatamento perfetto: nessuno dei due entrava mai nella sfera decisionale dell’altro. Ricordo un episodio: il pullman coi giocatori è pronto davanti alla sede per andare a Varese, che era allora l’unica sfida dell’anno. A un certo momento arriva un taxi a clacson spiegato, è Bogoncelli che fa a Rubini: “Rino, la macchina non mi parte, l’altra l’ha presa non so chi, posso venire con voi?”. E Rubini, affabile ma fermo: “Adolfo, tu sai che prima delle partite con i giocatori non voglio nessuno”. E lasciò giù il presidente. Che, comprensivo e in linea perfetta col proprio personaggio, non fece una piega. Bogoncelli fu il primo ad indicare la strada degli abbinamenti. E quando ci fu lo sposalizio con la Simmenthal di Gino Alfonso Sada, a priori faceva… paura quella “acca” nel mezzo. Chissà perché, ma allora era così. Naturalmente il timore era infondato, e il nome Simmenthal grazie al basket divenne tanto celebre che a un certo punto la popolarità della squadra di Bogoncelli fece aggio anche sul marchio industriale. Poi Bogoncelli, dopo avere vinto tutto, capì che un’unica squadra dominatrice, non poteva da sola creare il successo di uno sport. E convinse il suo amico Borghi, anch’egli uomo di sport ma impegnato soprattutto nel ciclismo nel pugilato, ad allestire una formazione per le battaglie tra i canestri. Borghi, che era un titano, ci si mise di buzzo talmente buono da mettere in piedi la famosa “valanga gialla”, che qualche dispiacere diede anche ai colori di chi l’aveva indotto al grande passo.
E infatti, per Bogoncelli, vennero anche, dopo le vittorie, i giorni meno allegri delle sconfitte. La sua squadra andò anche in “A2”. Ma, senza fare drammi, il “Bogos” (come a quel tempo era chiamato) preparò la riscossa per tornare a vincere tutto. E il grande Adolfo, prima di lasciare, compì ancora tre capolavori: primo, garantì alla sua formazione un nome che doveva diventare “abbastanza” importante nella successiva storia della squadra, quello di D’Antoni; secondo, prese un ometto anch’egli discretamente “pesante” negli annali della pallacanestro italiana, e fu Dan Peterson; terzo, quando venne il momento di lasciare, ebbe l’intuito, l’abilità e se si vuole anche la fortuna di lasciare la sua creatura nelle mani di gente in gamba, ricca di idee lungimiranti, come quelle della famiglia Gabetti. E non fu, questa, la meno importante delle sue mosse geniali.
Per l’ultimo saluto, sebbene – a causa della stagione già calda – molti fossero fuori Milano, gli furono vicini tantissimi dei suoi ragazzi che lo piansero come un padre. Ma vorrei citare un caso emblematico: Stanko Stanistankliewicz era un giovanotto quando scappò dalla Jugoslavia per continuare i suoi studi di medicina, e Bogoncelli l’aveva aiutato a proseguirli. Oggi è un affermatissimo professionista che vive negli Stati Uniti. Ma volle lui pure accorrere per il mesto addio al Presidente-Signore, al Presidente di tutte le intuizioni e di tutte le vittorie.
Bogoncelli ha fatto in tempo a vedere l’avvento del basket open, la nuova dimensione del basket nel nostro paese. Lui l’aveva intuita, aveva gettato le basi, e alzato i primi piani di quello che è oggi un imponente edificio. E l’aveva fatto quando il basket si può ben dire che non esistesse. E si può ben dire che ci voleva una grande fede – la Sua – a crederci.
Si ringrazia il Sig. Giuseppe Marmina per la segnalazione.