Nel giorno di Torino-Milano pubblichiamo una parte dell’articolo che www.olimpiamilano.com dedicò a Darryl Dawkins nel giorno della sua scomparsa. Dawkins giocò due anni a Torino da grande protagnista prima di approdare all’Olimpia per una stagione.
Certe cose non cambiano mai. Nel 1992 non c’era la percezione di cosa fosse qualificarsi ad una Final Four. L’Olimpia lo fece e incassò la sconfitta in semifinale contro un Partizan che avrebbe poi vinto il titolo con la maglia di Sasha Djordjevic allo scadere della finale contro la Joventut Badalona. Era un’EuroLeague aperta, era una Final Four che l’Olimpia poteva vincere ma senza pronostico. C’erano due squadre spagnole ma erano squadre inusuali, Joventut e Estudiantes. Poi c’era il Partizan sottovalutato: aveva Djordjevic che non era un ragazzino ma un campione emergente di 25 anni. C’era Sasha Danilovic. Zeljko Rebraca. C’era Nikola Loncar. E in panchina un allenatore debuttante: Zeljko Obradovic. Il grande Asa Nikolic, con tutto il suo spessore tecnico e il suo carisma, era il direttore tecnico di quella squadra. L’Olimpia perse la semifinale e venne subissata dalle critiche, processata seduta stante.
Nel 1975 Darryl Dawkins, nato e cresciuto in Florida, a Orlando, quando Disneyworld non era neppure stato pensato e la città era un agglomerato di paludi, nel cuore dello stato, era diventato il primo giocatore a passare direttamente dal liceo alla NBA. Aveva 18 anni. Era alto 2.11 ma aveva l’atletismo di una guardia e una potenza squassante. Fisicamente era un LeBron James con qualche centimetro e chilo in più, ma giocava dentro l’area e sviluppò nella NBA anche un discreto tiro dalla media. Approdò a Philadelphia, ovviamente impreparato dentro e fuori del campo. Giocò e perse una finale NBA contro Portland ma era un apprendista. Poi diventò il centro titolare e come tale giocò altre due finali NBA. Nel 1980 e nel 1982 sempre contro i Lakers. Philadelphia era sempre lì ad un passo dal titolo ma non riusciva a vincerlo. Dawkins era una macchina da schiacciate, un giocatore immensamente popolare per la spettacolarità del gioco, i tabelloni che amava rompere, l’atteggiamento da istrione in campo, avanti ai suoi tempi. Sorrisi, strizzatine d’occhio, smorfie. Piaceva tantissimo ma sembrava sempre troppo poco cattivo agonisticamente, troppo molle in difesa. I Sixers andarono sul mercato per Moses Malone e quando lo presero lasciarono che Dawkins si spostasse ai Nets dove collezionò i migliori numeri in carriera. Fece una tappa a Utah ma nel 1989, a 32 anni, la NBA lo rigettò e lui arrivò in Italia in un’era in cui non era raro che i grandi campioni NBA venissero qui a completare il loro percorso, qualcuno finito, qualcuno demotivato, qualcuno ancora in grado di fare sfracelli come Bob McAdoo. E come Darryl Dawkins.
Giocò due anni a Torino e furono i migliori: il secondo fu completato ad oltre 21 punti e 11 rimbalzi di media. Dawkins tirava dal campo con l’80% abbondante. La sua potenza in post basso non era legale in Italia. Arrivava al ferro e schiacciava. Sempre. Nel 1992 lo portarono a Milano ma ci furono altre mosse che il tempo non avrebbe approvato. Con il rientro di Davide Pessina da Cantù, l’idea era quella di prendere un playmaker americano e sottrarre Piero Montecchi alla pesantissima eredità di D’Antoni, resa ancora più pesante per la sua presenza in panchina. Invece durante l’estate, quando l’Olimpia venne invitata a giocare una summer league in America, si decise di prendere Johnny Rogers, ottimo giocatore ma un’ala forte che chiuse le porte a Pessina e scoprì le deficienze del reparto guardie. Ma per essere chiari, in una stagione senza vittorie, Dawkins segnò oltre 15 punti di media, tirò regolarmente oltre l’80% e catturò oltre 9 rimbalzi a partita. L’Olimpia non vinse nulla, Dawkins non legò del tutto e a fine anno andò a Forlì per due stagioni ancora molto buone. In cinque anni in Italia ha tirato con l’81.8% dal campo. Nessuno nella graduatoria di tutti i tempi figura nei suoi paraggi.
Dopo la sconfitta con il Partizan, Dawkins insieme a D’Antoni finì sul banco degli imputati. Eppure segnò 21 punti, fece 6/9 dal campo e 9/12 dalla lunetta. Catturò 19 rimbalzi. Ancora oggi i 19 rimbalzi sono record di tutti i tempi per una Final Four. L’Olimpia perse quella partita perché il Partizan era più fresco, giocò meglio con le guardie, nettamente meglio, e poi perché come fece notare D’Antoni in conferenza stampa, sbagliò toppi tiri liberi. Chiuse con 27/41. Lasciò sul campo 13 punti, la finale e forse la quarta Eurolega della sua storia. Ma cosa dire a Dawkins?
Chocolate Thunder, tuono di cioccolato, il soprannome più popolare tra i tanti che era solito attribuirsi, Darryl Dawkins è morto per un attacco di cuore quando aveva 58 anni. Era un omone enorme ma sempre in forma, elettrico nel modo di vestire, sgargiante, presenza fissa all’All-Star Game della NBA dove la sua personalità era sempre benvenuta. Abbracciava tutti e rideva in modo contagioso. Aveva quattro figli grandi. E aveva scritto anche un’autobiografia e raccontando l’Italia aveva confessato quel rapporto complicato con Mike D’Antoni che non era una questione di carattere o rendimento ma di modi differenti di vedere il basket. A inizio carriera, nella NBA, Dawkins era anche veloce e correva. Quando arrivò in Italia, molto più pesante e anziano, era lento e impneva il fisico. Ma resta un giocatore indimenticabile per l’Italia, che a Milano ha raccolto poco, anzi nulla, persino come riconoscimenti, e tuttavia è ancora oggi, appunto, il primatista di rimbalzi in una gara di Final Four. Quell’Olimpia venne criticata per la sconfitta in semifinale. Oggi possiamo capire meglio che fu comunque un’impresa, che 21+19 in una semifinale europea sono numeri da Playstation, che Darryl Dawkins anche all’Olimpia è stato un fuoriclasse.