Andrew Goudelock il Mini-Mamba di East Atlanta – come MarShon Brooks – aveva deciso di trascorrere una mezz’ora su un motore di ricerca a caccia di sue immagini da utilizzare per una dedica alla mamma. All’improvviso scoprì l’esistenza di un omonimo, anni prima, nella stessa zona geografica degli Stati Uniti. Un giocatore di football a livello scolastico. Il volto era familiare. A Goudelock bastava cercare uno specchio per vederne uno identico. Era suo zio.

Ma il cuore si fermò un attimo perché quella era la storia più incredibile che Goudelock avesse mai letto. Zio Drew, che non aveva nai conosciuto, era una star emergente del football scolastico nella Georgia, forse destinato alla NFL. Ma un brutto giorno gli diagnosticarono un tumore osseo. Dopo pochi giorni gli amputarono una gamba. Quando la sua squadra riprese ad allenarsi, Drew Goudelock si manifestò nello spogliatoio. Avrebbe continuato a giocare a football, senza protesi, correndo su una gamba sola. Coraggio, perseveranza, cuore. Drew Goudelock da senior fu convocato per l’All-Star Game della Georgia. Ricevette una standing ovation di cinque minuti. Quella storia fu uno shock per Andrew Goudelock il nipote. Zio Drew morì dopo quattro anni di coraggio e sofferenza. Il tumore si estese ai polmoni e per lui fu una tragica, precoce, fine, il 5 gennaio 1986. Aveva 19 anni. Uno dei fratelli, Greg, decise che il suo primo figlio si sarebbe chiamato Andrew in suo onore.

Andrew Goudelock non era una star all’uscita dal liceo di Stone Mountain anche se d’estate nel circuito AAU giocava per i quotati Atlanta Celtics, un’organizzazione nella quale sono transitati diversi pro come Dwight Howard, Joshn Smith, KJ McDaniels. Solo due college di Division One offrirono una borsa di studio a Goudelock: Kennesaw State e Charleston. Il coach di Charleston era Bobby Cremins, newyorkese di orgini irlandesi, grande allenatore a Georgia Tech, a fine carriera. Cremins conosceva il patrigno di Goudelock, Marvin Austin, e lo convinse a premere perché il figlio giocasse per lui. “Ero inallenabile, discutevamo tutto il tempo, testa contro testa – dichiarò Goudelock a ESPN -, avevo preso una brutta china ma lui non mi ha abbandonato. Non so come abbia fatto ma l’ha fatto”. Goudelock diventò titolare a Charleston già nel suo primo anno di università, fu il primo realizzatore di squadra negli ultimi tre anni e il migliore negli assist negli ultimi due. Charleston sconfisse addirittura North Carolina dopo un supplementare, un risultato storico per un piccolo college: Goudelock segnò da tre il canestro del pareggio. Uno “one-man show” che ha portato Charleston alla vittoria della Souther Conference nel 2011. Goudelock è il primo realizzatore di sempre della scuola, il terzo nella storia della conference. Ebbe un primato di 39 punti in una singola partita.

Goudelock fu scelto nei draft del 2011 dai Los Angeles Lakers con il numero 46, metà del secondo giro. I Lakers avevano vinto l’ultimo titolo NBA nel 2010, erano stati eliminati dai futuri campioni di Dallas nel 2011 e cambiato allenatore, con Mike Brown al posto di Phil Jackson. “Quando sono arrivato ai Lakers ero la guardia del terzo quintetto. I titolari avevano la maglia viola; le riserve quella gialla. Io indossavo la maglia rosa. Voleva dire che c’erano giorni in cui non giocavo il cinque contro cinque nemmeno in allenamento”. Il suo contratto non era garantito. Cercò di salvarsi vincendo tutti gli sprint in allenamento o parlando più di tutti in difesa. Brown lo mandò in campo contro i Clippers in amichevole. Era esitante e prese brutti tiri. Poi si sciolse e mise tre triple. Il giorno dopo Kobe Bryant gli disse di andare nell’ufficio di Mitch Kupchak, il general manager. In gergo NBA significa che sei stato tagliato. Invece era uno scherzo… Così cominciò un rapporto speciale con Kobe. “Per me era un’opportunità colossale, quella di competere tutto l’anno contro il più grande agonista del mondo. Penso mi rispettasse perché ero l’unico che non era spaventato”, disse a nba.com. Fu dopo una partita a Charlotte che Bryant inventò per lui il soprannome di “Mini-Mamba”, “perché io e te siamo gli unici a non aver mai paura di prendersi un tiro”.

Giocò 43 partite nei Lakers di quell’anno, playoffs inclusi, con 4.4 punti di media. La stagione seguente la trascorse quasi tutta nella D-League. Giocò a Rio Grande e Sioux Falls, fu nominato MVP, segnando 21.1 punti di media. A fine stagione, venne richiamato dai Lakers che nel frattempo erano allenati da Mike D’Antoni. Si qualificarono per i playoffs ma erano rovinti dagli infortuni. Kobe Bryant era rotto, Steve Blake anche, così Jodie Meeks. D’Antoni non ebbe scelta: lo sbattè in quintetto dal nulla. Goudelock rispose segnando 12.0 punti di media in 26 minuti di utilizzo, con un top di 20 anche se i Lakers furono spazzati via 4-0 da San Antonio.

L’estate seguente fu quella in cui l’Olimpia tentò di firmarlo una prima volta. Era stato visto dominare la summer league di Las Vegas con la squadra di Chicago (19.0 punti di media, con il 52.2% da tre e un high di 31) e giocando da point-man come aveva fatto nella D-League l’inverno precedente distribuendo 5.8 assist per gara. Goudelock aveva l’offerta di Milano per giocare proprio da point-guard atipica, il ruolo che poi sarebbe stato occupato da Curtis Jerrells, perché lui – appunto – fu strappato via da una maxi proposta dell’ultimo minuto di Kazan. All’Unics fu MVP di Eurocup, con la sua squadra che perse la finale contro Valencia, fu anche MVP della Coppa di Russia che vinse.”Molti giocatori mi hanno detto che Kazan è il posto più duro per cominciare una carriera europea – disse a Ian Thomsen di nba.com – d’inverno non puoi guidare perché l’auto slitta da tutte le parti, fa così freddo che non puoi mettere neppure venti sciarpe e gli scarponi, poi parlano inglese in pochi”.

Con le sue quotazioni alle stelle, andò al Fenerbahce Istanbul, due volte fu MVP della settimana, segnò 10 triple in una gara con il Bayern Monaco, record di sempre in EuroLeague, ebbe 17.0 punti di media con il 46.1% da tre. Il Fenerbahce arrivò alle Final Four (suo il canestro della vittoria a Tel Aviv in gara 3 dei playoffs) e lui segnò 26 punti in semifinale contro il Real Madrid che avrebbe vinto la coppa. Ne segnò 50 in due gare. Fu incluso nel secondo quintetto della stagione. “Con Coach Obradovic devi difendere ed è quello che ho fatto: se non difendi non giochi, non avevo scelta”, disse. Con il Fenerbahce segnò 30 punti in una gara di esibizione a Istanbul contro gli Spurs.

Nel 2015 fece una scelta che sta diventando sempre più popolare, quella di trasferirsi in Cina per un anno, a Xinjiang. Nel marzo del 2016 tornò nella NBA, a Houston. “La decisione di andare in Cina è stata familiare. Potevo giocare in EuroLeague e stare via dieci mesi, potevo tentare di andare nella NBA ma in Cina la stagione è corta, io e la mia compagna Ashli aspettavamo il secondo bambino (Adrian-ndr) e per me era una questione di trascorrere più tempo con la famiglia”, dichiarò allo Houston Chronicle rientrando ai Rockets. Con i quali finì la stagione. Lo scorso anno andò al Maccabi vincendo la Coppa d’Israele e guidando la lega israeliana nel tiro da tre (51%) e tiri liberi (91%). In EuroLeague ha giocato 20 partite, tutte in doppia cifra, con un top di 27 punti proprio contro l’Olimpia, e il 45.8% da tre.

 

 

Benvenuto a Milano, Mini-Mamba.

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