Era seduto in un angolo di Nobu, il ristorante in cui l’Olimpia stava festeggiando lo scudetto numero 26, con il sorriso stampato sul volto. Keith Langford era felice quella notte del 2014. Non aveva giocato una grande gara 7 contro Siena e l’Olimpia l’aveva chiusa con lui seduto in panchina durante la furiosa rimonta con fuga del quarto periodo. Ma non importava a lui, né a nessun altro perché Langford era stato protagonista di una stagione memorabile. Aveva stabilito il record Olimpia di punti in una stagione di EuroLeague, aveva vinto il titolo di capocannoniere della competizione ed era stato incluso nel primo quintetto. Ma dopo tanti anni e vittorie importanti, a Bologna e al Maccabi soprattutto, Langford voleva vincere a Milano. Il primo anno era finito malissimo. E c’erano stati altri momenti difficili in quelle due stagioni milanesi. Ma non quella sera. Quella sera, Langford era felice. Sapeva che sarebbe stata la sua ultima notte da giocatore dell’Olimpia, ma era anche la più bella.
Langford aveva 31 anni, non ancora compiuti quella notte. Adesso ne ha quasi 36. Dopo Milano, ha giocato a Kazan, in Cina, brevemente in Israele e quest’anno è al Panathinaikos. Essendo un professionista esemplare, un maniaco nella cura del proprio corpo, la sua carriera si sta allungando. Nella partita di andata contro l’Olimpia si infortunò dopo cinque minuti. E’ rientrato da poco ma subito brillante. In questa stagione sta segnando oltre 11 punti a partita ma ne ha fatti anche 33, contro Vitoria.
Texano di Fort Worth, la città adiacente a Dallas, una specie di gemella brutta e maltrattata, Langford viene da una famiglia di giocatori, genitori e sorella minore inclusi, ma nessuno degli altri ha avuto carriere paragonabili alla sua. Keith è un’eccezione. Ironia della sorte, il gene del talento ha baciato il Langford più piccolo di statura, più leggero. “Sono cosciente di essere stato fortunato ed è per questo che non voglio sperperare il mio dono, per questo sto attento ai dettagli e non mi metto mai nei guai. So che dal mio comportamento dipende il mio futuro e dipende tutta la mia famiglia”, dice. Quando è stato nominato nel quintetto ideale di EuroLeague ha voluto che la moglie Brittany e il bellissimo Kaycen, nato nel periodo in cui Keith ha giocato a Milano, fossero accanto a lui: “Senza loro due non sarei diventato quello che sono”.
Il suo primo amore però fu il football. Da buon texano. “Volevo fare il professionista ma volevo farlo nel football. Ancora oggi se devo scegliere preferisco guardare una partita di football piuttosto che una di basket”, ammette. Ma un giorno tutti i suoi amici fecero un provino per la squadra di basket. Langford si unì a loro e improvvisamente il mondo scoprì un talento speciale. Quelli che nel football erano difetti nel basket lo erano molto meno. Se non sei grosso e fisico ma veloce e sgusciante nel basket vai bene lo stesso. Langford lo capì e decise che il suo futuro sarebbe stato tra i canestri.
Roy Williams aveva reclutato Michael Jordan per North Carolina e sapeva riconoscere una guardia di alto livello quando ne vedeva una. Fu lui, da coach di Kansas, a reclutare Langford. La carriera di Keith nei Jayhawks fu strepitosa. Due volte raggiunse le Final Four NCAA (la seconda volta l’allenatore era Bill Self che sostituì Williams quando questi tornò a Carolina) e tutte e due le volte vinse la semifinale per poi perdere la finale. Una volta Langford riuscì ad avere la meglio su Marquette duellando con Dwyane Wade addirittura. “Ho sempre avuto la sensazione che Juan Dixon di Maryland e poi Carmelo Anthony di Syracuse si siano portati via i miei due titoli NCAA. Sì, ho qualche rimpianto. Soprattutto l’ho avuto sul momento poi guardando le cose in prospettiva ti rendi conto che quanto fatto non è da tutti e allora lo apprezzi di più”, dice. Fu la NBA a non apprezzarlo abbastanza. Guardando Langford gli scout vedevano una guardia nel corpo di un playmaker e una prima punta che non si sarebbe mai adattato a compiti di gregariato puro. E poi all’epoca Keith non era neppure un tiratore (le sue percentuali nel tiro da tre sono cresciute gradualmente anno dopo anno fino a tramutare un difetto in una delle caratteristiche più rilevanti e preziose). Non venne scelto nei draft e fu costretto a sbarcare in Europa quando i giochi erano fatti e lui un rookie da maneggiare con cura. Così dovette costruirsi una grande carriera europea partendo dal basso, Cremona poi Biella, quindi Bologna, Khimki, Maccabi prima di Milano. Una crescita costante che l’ha portato a vincere abbastanza, a conquistare trofei da MVP (Eurochallenge, Lega Adriatica), migliorando con gli anni. Guardia pura, mancino, con un’accelerazione pazzesca che gli ha sempre permesso di attaccare il ferro nonostante la taglia fisica e un tiro che nel corso delle stagioni è diventato strepitoso, Langford è stato una delle migliori guardie tiratrici del continente negli ultimi dieci anni e forse il miglior nella metà campo offensiva.