Oggi è il compleanno numero 27 di Charles Jenkins. Nel fargli gli auguri – tra l’altro causa risentimento muscolare non giocherà nella gara di Bologna – riproponiamo questa presentazione-intervista del dicembre scorso. Happy 27 Zio Charles!

Nel 2001 Charles Jenkins era poco più che un bambino del Queens, uno dei cinque grandi sobborghi di New York, quando il fratello maggiore, Kareem, morì in una sparatoria occasionale a Brooklyn. Eventi come questo possono segnare la vita di chiunque specialmente se così giovane ma Charles Jenkins ha superato anche quest’ostacolo. A quei tempi, Jenkins frequentava la Holy Cross High School ma le scorie della perdita lasciarono il sogno e – come ha riportato anni dopo il New York Times dedicandogli un articolo – a causa delle troppe assenze venne espulso. Fu allora che CJ gettò le basi per il suo futuro di uomo e di atleta. Si iscrisse alla Springfield Gardens High – la stessa che a suo tempo frequentò l’ex stella dei Knicks, da poco deceduto, Anthony Mason – nota per non lasciare mai nessuno per strada. “Quando nessuno ti vuole, Springfield Gardens ti tende la mano”, racconta Jenkins. L’Italia forse era già nel suo destino: il coach si chiamava Angelo Buono e fu lui a trasformarlo in un giocatore di livello. In cambio Jenkins resistette ad ogni tentazione e continuò a giocare per la sua squadra fino a quando non si diplomò e andò un po’ più a nord, a Long Island, dove gioca Hofstra.

LE ORIGINI – Nel 2011 quando lasciò Hofstra, Charles Jenkins aveva molte ragioni per ritenere la sua una storia di successo. La sua maglia numero 22 (gioca con il 22 per onorare il fratello che morì quando aveva appunto 22 anni) era stata ritirata dal college prima ancora che lui lo lasciasse. Ancora oggi, Jenkins è il primatista di ogni epoca dei Pride per punti segnati. E sempre nel 2011 è diventato il primo giocatore scelto dalla NBA proveniente da Hofstra dai tempi di Speedy Claxton, che poi finì nella NBA come cambio di Allen Iverson a Philadelphia. Eppure anche gli anni di Hofstra non sono stati necessariamente facili. Il coach che lo reclutò – un altro italiano, Tom Pecora – lasciò la scuola prima del suo ultimo anno. Il coach designato per sostituirlo era Tim Welsh ma si dimise senza aver mai allenato una gara perché fu pizzicato a guidare in stato di ebbrezza. E così si materializzò il terzo allenatore italiano della sua carriera, Mo Cassara. Jenkins trascinò Hofstra ad una stagione importante che fu anche quella del suo terzo “Haggerty Award”, assegnato ogni anno al miglior giocatore di college dell’area metropolitana di New York. Solo due prima di lui avevano vinto quel trofeo tre volte: Jim McMillian (Columbia), che poi ha giocato nei Lakers e vinto lo scudetto alla Virtus Bologna, e Chris Mullin (St.John’s), la grande star NBA che sarebbe arrivato al Dream Team addirittura.

LA NBA – Jenkins fu scelto nel secondo giro dei draft NBA. Era però l’anno del lockout e firmò con Teramo mantenendosi l’opzione di rientrare negli Stati Uniti se la Lega avesse ripreso l’attività. Successe prima che potesse giocare in Italia. A Golden State il suo ruolo era quello di coprire le spalle a Stephen Curry, che non era ancora il Curry di oggi. Il suo allenatore era Mark Jackson un altro newyorkese. Il problema quello di riconvertirsi nel ruolo di playmaker. Dopo un anno e mezzo andò a Philadelphia ma non ce la fece a ritagliarsi il proprio spazio. Nell’estate del 2013 avvenne lo sbarco in Europa: per due anni ha giocato alla Stella Rossa vincendo Lega Adriatica, campionato serbo e Coppa di Serbia. Ha giocato in Eurolega in una squadra atipica, costruita tutta attorno ad un centro mastodontico come Boban Marjanovic. Ha conquistato i tifosi e ha conquistato il club. La gara della svolta fu il ritorno dei quarti di finale di Eurocup nel 2014 quando segnò 21 punti nell’ultimo quarto davanti a 25.000 spettatori. “E’ stata la partita che, vedendo poi la reazione nei giorni successivi, mi ha fatto capire quanto la Stella Rossa fosse importante per tanta gente”, ha detto. Addirittura ha provato a imparare la lingua locale. “Non volevo rinchiudermi nella mia stanza senza afferrare la cultura locale. Per il tempo in cui sono stato a Belgrado mi sono considerato un ragazzo serbo e ho provato a esprimermi in serbo”. E adesso sta facendo lo stesso con l’italiano partendo dalle basi Fino a quello che è diventato il suo saluto ovvero “Ciao Zio” rivolto a tutti indistintamente.

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