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The Arthur Kenney Report

12/05/2013
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Avrebbe voluto parlare in italiano anche con i giocatori. Avrebbe voluto. Ma sono altri tempi. “Ai miei c’era un americano per squadra, imparare l’italiano era una necessità. Io dicevo sempre che ogni squadra aveva nove italiani e un handicap americano. Qualcuno ne aveva due quando giocava le coppe. Ora è differente”. Persino quando si imbatte in Malik Hairston, Arthur Kenney – “ma finanche i miei amici americani mi chiamano Arturo – cerca l’approccio in italiano, con modesti risultati. E’ stata una full-immersion nell’Olimpia, quella del grande campione degli anni ’70. Un pranzo con il presidente Livio Proli, raccontando dell’11 settembre a New York, delle battaglie con Dino Meneghin e con Bob Lienhard che giocò a Cantù e lì si è trasferito, di quando conobbe Joe Isaac a New York perché veniva dalla sua stessa Power Memorial Academy e poi lo vide viaggiare in “doppio 20” ad Iona prima di rivederlo in Italia. O anche Charlie Yelverton, “che veniva dal Bronx, giocava a Rice High School e adesso quand’è a New York non vede l’ora di tornare a Varese”.

Un fiume di aneddoti, Arthur Kenney. E lo spirito da gladiatore che non lo abbandona nemmeno adesso, a 67 anni, “perché il terzo spareggio con l’Ignis, a Bologna, ce l’ho ancora qui” e indica la gola prima di menzionare due falli spesi male e uno che non aveva commesso. Salvo tornare sulle vittorie in Coppa delle Coppe, sullo scudetto del 1972 e di quando per battere Joe Allen, pivot basso e grosso ma lento di Udine, corse come un forsennato “e lui pensava fossimo due Kenney, non uno”. Il pranzo con il presidente viene consumato all’Emporio Caffè, al termine di via Montenapoleone “dove andavo a prendere lezioni di italiano”.

Poi la sequenza di interviste, al telefono, il giorno dopo sotto le luci delle telecamere, mostrando la sua maglia numero 18 originale, con la scritta Simmenthal, il colore bianco diventato beige e chiazze di sangue “che, vi garantisco, non è il mio: se volete facciamo pure la prova del DNA”. All’allenamento dell’Olimpia viene invitato a parlare con i giocatori. “Voi avete la fortuna di giocare per un grande club, una grande proprietà, come successe a me. E’ una grande opportunità da non perdere. Nella mia carriera ho sempre pensato solo alla squadra e ai risultati di squadra, viaggiavo in doppia doppia di media ma sarebbe stato lo stesso se avessi segnato due punti e preso tre rimbalzi perché contavano le vittorie, contava lasciare tutto sul campo. Prima di una partita con Varese mi procurai una distorsione alla caviglia, ma due giorni dopo andai in campo lo stesso con un’infiltrazione di novocaina attraverso le bende. Perché non c’era nulla che non avrei fatto per la mia squadra e ora quella squadra mi ritira la maglia. E’ un onore”, ha detto. Poi ha voluto conoscere Nicolò Melli, “so che ha la mamma americana, che ha vinto un argento olimpico nella pallavolo, è un bravo ragazzo, educato e sono orgoglioso che sia lui l’ultimo ad indossare la maglia numero 18”. Melli e Kenney si scambiano le maglie, quella nuova EA7, quella vecchia con i numeri e le scritte cucite del Simmenthal.

Poi a pranzo sulla terrazza dell’H2C per esplodere con altri aneddoti come quella volta, famosissima, a Belgrado, in cui inseguì Moka Slavnic in tribuna. “Bariviera stava facendo una rimessa e uno slavo, si chiamava Lazarevich, seduto in panchina, si alzò colpendolo. Il coach Rubini dalla panchina andò verso il luogo dell’incidente. Slavnic da dietro gli sferrò un calcio colpendolo a tradimento. Io sprintai verso di lui e lui scappò in tribuna. In un attimo mi ritrovai in mezzo ad una folla di persone, c’era anche un poliziotto e per liberarmi lo colpii al volto. Venni espulso, loro vinsero, noi passammo il turno. Lo stesso poliziotto cercò di colpirmi, dopo, mentre ero in panchina. Ma me ne accorsi e evitai la manganellata. Mi colpì solo alla spalla. Il massimo fu che persino il povero Pino Brumatti nel marasma tirò un pugno e si ruppe la mano. Glielo dissi, a Pino: usa le mani per tirare, sai farlo bene, i pugni lasciali tirare a me”. Brumatti era il suo migliore amico, “un fratello minore, un ragazzo troppo buono, sono disperato per la sua scomparsa”; Andolfo Basilio “è il mio fratello italiano”; “Paolo Bianchi me lo ricordo quando andavamo a pescare sul Po e una volta lui tornò a casa con un fagiano… Mentre teneva la canna ne vide passare uno e lo colpì con una sassata!”. Come ha scritto Piero Guerrini su Tuttosport, Arturo potrebbe parlare mezz’ora oppure per giorni. Quando entra nella Secondaria nel Lido si commuove. Poi guarda un canestro: “Adesso sono sospesi, ai nostri tempi erano incollati al suolo e fu per quello che mi infortunai prima di quella partita a Varese… Io venivo qui spesso anche il lunedì perché non mi piacevano i giorni di riposo. Avevamo una squadra fortissima, trovai sei nazionali più Paolo Bianchi, il miglior junior italiano. Cosa dovevo fare? Aiutare dove serviva. Avevo una fortuna, quella di aver giocato in tanti ruoli per cui potevo dare una mano dappertutto. Alla Power Memorial Academy giocavo con Kareem Abdul-Jabbar. Mi avrà stoppato duemila volte. Ma imparai una cosa: se riprendi la palla puoi segnare lo stesso”.

E’ un professionista Kenney, sposato con Jeane, ha una figlia che si chiama Kristine, fa tutto con serietà e ha sfondato anche nella vita. Finanza, Wall Street. Il discorso che ha pronunciato durante la cerimonia di ritiro della maglia l’ha scritto personalmente e stampato su cartoline plastificate. Al suo fianco aveva tutti gli amici di un tempo, Gaggiotti, Bariviera, Papetti, Ongaro, Pieri, Bianchi e il coach Sandro Gamba e l’avversario Dino Meneghin che poi ha ritrovato a Milano. Si è emozionato ma ha vinto sull’emotività, il pubblico l’ha incitato nel suo discorso quando ha sentito pronunciare le parole “la squadra più vincente di tutti i tempi”, “il mio grande coach Cesare Rubini”, “grazie Milano”. Una serata indimenticabile replicata in forma privata la sera dopo con tutte le famiglie, Giulio Iellini collegato via telefono, una notte lunga rovistando tra gli aneddoti. “Una volta stavamo andando in aereo a Salonicco e Arturo dormiva – dice Bariviera – così abbiamo cominciato a tirargli delle palline di carta. Quando si è spazientito è arrivato da me e mi ha praticamente amputato un dito. Lì abbiamo capito che non dovevamo farlo arrabbiare. Era uno che si sapeva far rispettare. Una volta lo chiudemmo a chiave nella sala riunioni di via Caltanissetta, la vecchia sede. Sentimmo dire: conto fino a tre e poi abbatto la porta. Al due l’avevamo già aperta…” “Non era un gruppo, un gruppo sono delle persone che vanno fuori al cinema, noi eravamo una squadra che era diventata un monolite, ci difendevamo tutti uno con l’altro. Nella famosa rissa di Belgrado – racconta Gamba – difesi Kenney in mezzo al campo quando uno stava per tirare un rigore con la sua testa. Avevamo un grande nucleo italiano, e il nostro lavoro consisteva nel trovare americani che si integrassero bene. Sbagliammo raramente. Nel 1970 i prezzi degli americani buoni erano altissimi, perché in America si scannavano tra NBA e l’emergente lega alternativa, la ABA. Non trovavamo nulla e alla fine Rubini mi dissi cosa avremmo potuto prendere in Europa. Dissi che c’era questo Kenney in Francia che l’estate prima aveva fatto quasi a pugni con Jim Tillman, il nostro americano dell’epoca, in un torneo estivo. Andai in Francia alla finale di Coppa e lo contattai”. “Non aveva ancora finito di parlare che avevo già detto sì. E poi scoprii che mi avrebbero anche pagato”, puntualizza Kenney.

“Per tre anni in sede vedevo la foto di Bill Bradley e quella di Skip Thoren. Bradley e Thoren. Thoren e Bradley. Mi dissi che sarebbe stato bello se un giorno a Milano fossi stato ricordato con abbastanza affetto da meritarmi una foto in sede. Ora ce l’ho, l’ho anche firmata. E addirittura mi hanno ritirato la maglia. Lo devo a tutti i miei compagni, alla mia grande Olimpia, una famiglia vera”.

LA FOTO IN SEDE
IL RIMBALZO DI ARTURO
IL 18 DI UNA VOLTA, L'ULTIMO 18
L'INCONTRO CON LA SQUADRA
DINNER TIME