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Peterson racconta il Milano-Roma da record

21/10/2012
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Nessuno la dimenticherà mai perché probabilmente rappresentò il momento di più alta popolarità del basket italiano. Nel 1980 la Nazionale vinse l’argento olimpico a Mosca, nel 1982 Cantù vinse la Coppa dei Campioni e nel 1983, poche settimane prima dei playoff, Cantù riuscì a ripetersi in una finale tutta italiana contro l’Olimpia. L’interesse attorno al movimento era al top, c’erano grandi americani, eccellenti giocatori italiani e allenatori-personaggi. Nessuno più di Dan Peterson, americano dell’Illinois trapiantato da Milano via Bologna, e Valerio Bianchini, lombardo della provincia di Bergamo ma innamorato di Roma. Quell’anno si trovarono al posto giusto nel momento giusto. Due squadre grandissime, le capitali mediatiche del paese, attenzione alle stelle e grande spettacolo in campo. “La gente veniva a vedere Larry Wright e Mike D’Antoni, poi rappresentavamo Milano e Roma, il massimo, ma io e Bianchini onestamente facemmo la nostra parte”, racconta coach Dan Peterson. Roma vinse lo scudetto, l’unico della sua storia, ma a dimostrazione di quanto fosse forte si confermò un anno dopo vincendo addirittura la Coppa dei Campioni.

L’ANTEFATTO – Lo scudetto del 1983 si decise molto prima della finale. “Sono ancora convinto che se avessimo avuto il vantaggio del campo, avremmo vinto noi”, dice Dan Peterson. Invece nell’ultima di regular season, la Libertas Livorno sbancò Milano con un canestro da metà campo di Roberto Paleari, ironicamente prodotto del vivaio Olimpia. “Avevamo perso di 11 a Roma, vinto di 8 a Milano, ma battendo Livorno saremmo finiti davanti. Invece il mio amico Ezio Cardaioli portò la sua squadra a Milano e ci beffò. Finimmo secondi e giocammo la finale con il fattore campo contro. Dopo la mossa Gallinari su Wright al Palazzone di San Siro, Valerio Bianchini definì Gallo l’antibasket. Quando ci riprovammo in gara 3, finì fuori per falli. Era scontato. Ma a Milano sarebbe finita diversamente”.

LARRY WRIGHT – Fu il grande protagonista della serie e della stagione. “A quei tempi c’erano americani che potevano tranquillamente giocare bene nella NBA e Larry Wright era uno di quelli – ricorda Peterson – Era diverso da Mike D’Antoni, perché il nostro playmaker era un direttore d’orchestra, il loro era più attaccante, tiratore, realizzatore, buon passatore ma soprattutto segnava. Lo paragono ad Isiah Thomas o Allen Iverson: era difficile stargli di fronte, non farsi battere”.

LA MARCATURA – Dopo una partita e mezzo di sperimentazioni, nacque così la mossa della disperazione per contenere Wright. “Avevamo provato tutto, la nostra 1-3-1, Boselli, Premier, D’Antoni e forse persino John Gianelli. Eravamo sotto di 8. Decisi di provare anche Gallinari. Gallo era un grande difensore ma soffriva due giocatori, i centri pesanti in post basso e i piccoli troppo veloci. Quindi fargli marcare Wright non era esattamente un’idea scontata. Provammo e funzionò. Arrivò un parziale di 15-0, ribaltammo la partita e vincemmo gara 2. Poi Bianchini, geniale, definì Gallinari l’antibasket che si opponeva al talento di Wright”.

L’AVVERSARIO – Peterson contro Bianchini. Due allenatori vincenti, furbi, personaggi e anche rivali. “In realtà siamo sempre stati amici, anche a quei tempi, ma ognuno tirava l’acqua al proprio mulino e in questo Bianchini era il più bravo di tutti. Non guardava in faccia nessuno e passava sopra il cadavere di tutti. Quella serie passò alla storia per la grande massa di pubblico, 13.000 persone ogni gara, forse di più perché c’era meno controllo. Record di pubblico, record di incassi e infine record di audience televisiva. Roma contro Milano, D’Antoni contro Wright ma sì posso dire che c’eravamo anche noi, io e Bianchini”.

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