
Ecco la storia-intervista di David Moss che trovate nel “Game Program” della partita con Varese in distribuzione domenica al Mediolanum Forum.
Nel 1972 il distretto 205 di Chicago era troppo affollato perché i due licei potessero gestire tutti i ragazzi della zona. Fu così che nacque nello stesso distretto la Thornwood High School, sobborgo di South Holland, periferia della città del vento. Da allora la scuola ha prodotto una manciata di giocatori di baseball come il lanciatore Mark Mulder o Cliff Floyd, qualche attore (Jason Weaver, Matt Doherty), un ostacolista vicecampione del mondo (Reggie Torian) e giocatori di basket come Eddy Curry. E David Jerard Moss. Thornwood è dove Moss giocò e diventò un vincente anche se cavalcando il tappeto magico dell’immarcabile, allora, Curry, un centrone di 2.10 e 130 chili che poi nella NBA sarebbe imploso. La presenza di Curry oscurò Moss e David anziché giocare per un grande college fu costretto ad optare per Indiana State, non tanto lontano da Chicago ma immersa nelle campagne dell’Indiana in un posto chiamato Terre Haute. “In realtà giocare in un programma vincente mi ha dato la possibilità di essere visto dagli scout attratti da Curry ma nell’ultimo anno avevo giocato abbastanza bene da ricevere diverse offerte da college di primo piano. Però avevo dato la mia parola a Indiana State prima dell’inizio della stagione e ho voluto mantenerla. Loro c’erano fin dal primo giorno, avevano visto cose che gli altri non avevano ancora visto”.
IL COLLEGE – Indiana State è dove giocò Larry Bird, primo nella graduatoria del realizzatori dell’ateneo in cui al quinto posto figura proprio Moss. Ma salvo il periodo firmato appunto da Bird è sempre stato quello che in America chiamano “Mid-Major”, un college cestisticamente di medie dimensioni, che raramente ha esposizione nazionale e spesso fatica a farsi largo. Da Thornwood a Indiana State fino all’Europa senza passare dalla NBA. “La NBA non è mai entrata davvero nei miei pensieri. Al liceo volevo una borsa di studio per il college, un fatto importante per me e la mia famiglia. Quand’ero a Indiana State ad un certo punto il coach mi disse che avrei potuto diventare un professionista. In quel momento ho cominciato a prendere le cose in modo un po’ più professionale, ad avere un approccio diverso, più serio. Fino ad allora il basket era stato sempre un divertimento. Ha continuato ad esserlo, anche ora è così, ma con un livello di serietà più alto”.
IL DIFENSORE – Questa è la storia di Moss, uno dei rari giocatori che fanno della difesa innanzitutto il loro marchio di fabbrica. Il tiro, l’attacco, i punti, vengono sempre dopo. Andrea Capobianco, il coach che lo portò in Italia, a Jesi, disse: “La prima volta in cui lo vidi giocare nei primi possessi ebbe un canestro, un assist, un rimbalzo e una palla rubata”. Ergo: poteva fare tutto. E’ stato il destino della sua carriera, una costante ascesa. Dalla Polonia a Jesi in Legadue, a Teramo, a Bologna, a Siena con tre scudetti e infine Milano. Quando arrivò a Siena, dopo Bologna, era fuori squadra. Poi Malik Hairston, la scelta del club toscano, si infortunò e Moss fu richiamato in squadra. Non se ne sarebbe mai andato. “Da bambino – racconta – praticavo ogni tipo di sport ma il mio primo amore fu il football: mi piaceva la natura fisica di quello sport. Ma negli ultimi due anni di liceo, il basket ha preso il sopravvento. A quei tempi ero soprattutto un realizzatore, un tiratore, poi ho cercato di non perdere queste caratteristiche ma salendo di livello mi sono chiesto cosa fare per essere davvero utile. Ho cercato di ritagliarmi uno spazio, con la difesa, l’energia. Posso dire che la mia carriera abbia largamente superato le mie aspettative. La difesa? In attacco sai di non poter segnare tutte le volte ma se prendi buoni tiri hai fatto il tuo, in difesa giochi contro gente con un talento tale che è dura fermarli. L’obiettivo è non far sentire l’attaccante a suo agio, costringerlo a fare le cose che gli piacciono e riescono di meno, per questo è importante la preparazione, conoscerne le tendenze, sue e della squadra in cui gioca”.
CHICAGO – Moss è il campione dell’applausometro. Non è una questione di tifo ma di carisma. Ovunque vada viene riconosciuto e applaudito. Si definisce uno “spirito libero”, lo dimostra con i suoi “braids” cresciuto negli anni o il corpo rivestito di tatuaggi, il primo fu un pallone da basket infuocato, per celebrarne la passione. La Willis Tower è un gesto di affetto per la propria città, Chicago; il volto della zia è soprattutto amore e la scritta “Mossman” è un vezzo. Quando giocava al college, David Moss era il giocatore, “Mossman” era il suo alter-ego, una specie di supereroe che salvava la squadra. “Sono un tifoso di tutto ciò che è Chicago, adoro la mia città, tifo per tutte le squadre, i Bears di football, i Bulls della NBA, i Blackhawks di hockey. Da noi dicono che non puoi tifare per tutte e due le squadre di baseball ma io amo troppo Chicago per non sostenere sia i Cubs che i White Sox. Ma a casa mia la vera tifosa era mia nonna, lei era quella che guardava tutti gli sport, tutte le partite”.
PIPPEN – Cresciuto negli anni dei grandi Bulls, per capire l’evoluzione di Moss basta probabilmente capirne i gusti: “Michael Jordan era l’idolo di tutti e anche il mio, ma sono convinto che nei grandi Bulls fosse altrettanto importante Scottie Pippen. Nella finale del primo titolo ha marcato Magic Johnson per tutta la serie. Lui sapeva fare tutto e difendeva su una moltitudine di avversari. Diventando più esperto ho sempre più cercato di avvicinare il mio gioco a quello di Scottie Pippen: fatte le debite proporzioni ci sono molte similitudini, versatilità, difesa, energia”.