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Intervista: Casalini l’uomo dell’ultima coppa

11/10/2012
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Aveva per le mani una squadra fortissima, indimenticabile ma anche una grandissima responsabilità per un allenatore alla prima esperienza come head-coach, un allenatore che arrivava dopo il mito Dan Peterson e dopo un Grand Slam. Franco Casalini, nella stagione 1987/88, riuscì nell’impresa di diventare campione d’Europa al primo anno da capo, alla guida dell’Olimpia, ovvero la sua squadra. Da allora un solo allenatore italiano ha vinto l’Eurolega, Ettore Messina. Prima di lui ci sono riusciti solo Cesare Rubini, Sandro Gamba, Valerio Bianchini e Giancarlo Primo. “Avevamo lo stesso nucleo di campioni, sapevo di poter contare su una squadra fortissima, solida anche fuori del campo; sapevo di allenare una macchina da guerra ma fu lo stesso una stagione difficile. Gestire una squadra reduce dal Grande Slam era una responsabilità enorme. Già dopo la sconfitta in casa con il Barcellona in Coppa Intercontinentale avevamo i fucili puntati contro. A Gand arrivammo senza alcun pronostico a favore, anche perché l’Aris ci aveva battuto nettamente in casa e avevamo faticato a superarlo a Milano. Però vincemmo. Era una squadra speciale”.

Come cambiarono i rapporti con i giocatori diventando capoallenatore?

“ Tre di loro, Meneghin, D’Antoni e McAdoo erano sia pur di poco più anziani di me, quindi non potevo inventarmi un atteggiamento diverso ma in generale dovetti cambiare molto. E persino con quei tre diminuirono gli scherzi: ognuno giocava con la propria vita e la propria professione”.

Kenny Barlow andò via e prese Rickey Brown…

“Mi dissero un mercoledì che Barlow se ne sarebbe andato e io in automatico chiesi Brown. Era un giocatore che mi piaceva tantissimo, per me era il lungo ideale da mettere assieme a Meneghin e McAdoo. Non ci preocupammo tanto dell’ala piccola e in infatti lo pagammo in finale contro Pesaro: Darren Daye ci massacrò”.

Fu un’impresa: far giocare assieme tre centri in pratica…

“In attacco non ci fu un problema, Brown e McAdoo tiravamo bene da fuori, viaggiammo oltre i 100 di media. Giocavamo con due guardie, due ali larghe e Meneghin era in mezzo. In difesa era un po’ più complessa, la situazione. Da Sibilio del Barcellona a Daye di Pesaro tutti gli esterni piccoli e atletici ci misero in difficoltà. Infatti l’anno dopo facemmo una scelta differente”.

E quando arrivaste in semifinale, contro l’Aris, l’avversario si chiamava Slobodan Subotic.

“Decisi di affidarmi al mestiere di Dino Meneghin. Ebbi l’idea di far marcare un’ala piccola, grande tiratore perimetrale, ad un centro. Dino non l’aveva mai fatto. Aveva 38 anni, non ebbe un problema a rispettare le consegne e lo cancellò dal campo. Lo decidemmo durante un pranzo, io, Toni Cappellari e Mike D’Antoni con il quale mi consultavo sempre. Ne parlai con Dino: era disponibile… Il resto del lavoro lo fecero i giovani Pittis e Montecchi marcando Nick Galis”.

E ritrovaste il Maccabi come un anno prima.

“Avevano cambiato molto, li avevamo battuti a Tel Aviv. Onestamente avevo grande fiducia di vincere. Pensavamo che la squadra più forte fosse il Partizan che si autoeliminò in semifinale con una scelta tattica a mio avviso folle, tenere Vlade Divac libero in mezzo all’area fingendo di fargli marcare il playmaker. Persero così. Contro il Maccabi fu meno dura che nel 1987 a Losanna ma vincere una finale non è mai facile. L’Olympiacos lo scorso anno poteva essere felice: aveva raggiunto la finale, invece ha battuto il CSKA comunque”.

L’Eurolega oggi è più difficile?

“Vincere è sempre difficile ma allora era più complicato partecipare perché per farlo dovevi vincere il campionato oppure detenere la Coppa. Il girone finale era di otto squadre, tutte reduci dai titoli nazionali. Dovevi arrivare nelle prime quattro per andare alle Final Four, che nel 1988 erano al primo anno di svolgimento. Il fortissimo Barcellona si autoeliminò perdendo in Olanda, dove noi avevamo tutti vinto. Non potevi sbagliare nulla”.

Pagaste lo sforzo in campionato?

“No, pagammo una formula assurda: chi aveva il vantaggio del campo giocava la prima fuori. La perdemmo e poi perdemmo in casa dopo una tripla di Walter Magnifico. Sullo 0-2 eri finito. Ma la Scavolini era fortissima a prescindere. Semmai pagammo Darren Daye”.

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