Oggi 3 giugno il grande Sandro Gamba compie 90 anni. Riproponiamo l’articolo pubblicato in occasione del ritiro della sua maglia numero 8.

Il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione, Sandro Gamba era un bambino, vivace, che amava il ciclismo, avrebbe tifato per Fausto Coppi e su una bici Rossignoli regalatagli del padre si sentiva il padrone del mondo, pronto a scalare il Tourmalet, l’Alpe d’Huez e il Mortirolo. Ma sarebbe andata diversamente e tutto sarebbe cominciato proprio il 25 aprile 1945. Tutti hanno una storia legata al 25 aprile 1945, o a uno di quei giorni in cui in Italia è stata fatta la storia. Ma poche storie possono essere belle, struggenti, emblematiche, come quella di Sandro Gamba.

Il futuro leone di via Washington era in strada quel giorno perché i bambini vivevano così, allora, per strada, e poi la guerra stava per finire e c’era voglia di divertirsi. Ma nel caos totale quelli che il piccolo Sandro sentì esplodere nell’aria erano colpi di mitra. Il piombo vagava dappertutto. Una raffica lo colpì alla mano destra quasi portandogliela via. Sarebbero serviti due anni per rimetterla a posto, ma “quell’episodio mi cambiò la vita”.

C’erano gli americani, lo convinsero a praticare il loro sport perché sarebbe servito per rieducare la mano offesa. “Palleggia con questa palla, colpiscila dolcemente, poi sempre più forte, tirale degli schiaffoni”, gli spiegarono. Gamba cominciò a palleggiare e non smise più. “Facevo ciclismo in un’Italia divisa tra Bartali e Coppi, ma un giorno Mario Borella, storico allenatore dell’Olimpia, mi vide giocare e in milanese mi consigliò di pensare solo al basket, di lasciar perdere le due ruote”.

L’Olimpia giocava proprio in via Washington 33, all’epoca. Era un altro segno del destino. Gamba non sarebbe mai diventato un giocatore di classe, ma un combattente sì: “Una volta Meneghin mi disse che apprezzava il fatto che io le cose le ho sempre dette in faccia senza giri di parole. Non avevo paura di niente. La vita mi aveva insegnato a non avere paura di niente”, racconta.

Gamba sarebbe arrivato all’Olimpia giovanissimo, migliorando tanto e in fretta. Era un giocatore di perimetro, grande fisico, durissimo, grande difensore, durissimo, un uomo squadra. Sì, va detto ancora, durissimo. Avrebbe vinto 10 scudetti, i primi da comprimario, poi da protagonista di una formazione terrificante, nella quale i deputati a fare canestro erano altri. Romeo Romanutti, tiratore arrivato da Trieste ma nato in Croazia, e Sergio Stefanini, il primo centro moderno secondi i testimoni, proveniente da Venezia e mezzo brasiliano, soprattutto. “Ero una guardia, un po’ anche playmaker – ricorda Gamba – ma non segnavo tanto, il mio massimo forse è stato 12 punti, ma ero tenace”. Gamba faceva coppia con Ricky Pagani, forse la prima star del basket italiano, un poliglotta, con gli occhi a mandorla, nato a Shangai e qualche esperienza cinematografica, uno rimasto vicino per sempre all’Olimpia in futuro quando la sua abilità comunicativa lo portò a convincere Bill Bradley e Mike D’Antoni per citare due dei più grandi.

All’Olimpia, Gamba ha giocato più stagioni di qualsiasi altro giocatore, 15, 247 partite in Serie A, un numero enorme considerata l’epoca, quando 22 potevano bastare per decidere uno scudetto, non c’erano i playoff, 1.083 punti segnati. Il resto a quei tempi non lo contavano. Gamba era un giocatore part-time come tutti a quei tempi. Il premio scudetto era un abito di sartoria che Adolfo Bogoncelli preparava su misura per i suoi giocatori. Il trattamento di cui godevano era di prima classe. Il Borletti/Simmenthal aveva le tute di raso e le maglie rosse acquistate negli Stati Uniti. I migliori giocatori italiani prima o poi arrivavano sempre a Milano e Cesare Rubini aveva creato una cultura vincente. “Ci aspettavamo di vincere, la sconfitta doveva essere un fatto inatteso. Quando vincevamo di poco andavamo via arrabbiati, proprio come i nostri avversari”, racconta.

L’Olimpia è stata il grande amore di Sandro Gamba, assieme alla Nazionale. Sperava di partecipare alle Olimpiadi del 1952 quando era giovane, ma non fu possibile. Nel 1956 a Melbourne, la Federazione decise di rinunciare perché erano Olimpiadi programmate d’inverno, durante il campionato, e nel 1960 temeva di aver perso il treno, perché aveva 28 e a quei tempi era considerato superato. Invece, il coach Nello Paratore si affidò ancora ad un gruppo di veterani. L’Italia a sorpresa arrivò quarta, eliminata in semifinale dagli Stati Uniti, ma dopo una grande resistenza, e nella finale per il bronzo fu superata dal Brasile. In quei giorni, la Nasa lo incluse nell’elenco degli atleti con le caratteristiche fisiche ideali per entr­are nel programma aerospaziale che avrebbe portato Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins sulla Luna nove anni dopo. Gamba rifiutò la proposta. Ma dentro la testa, da qualche parte nel suo cervello, lo rimpiange ancora oggi. Tornasse indietro… un tentativo lo farebbe di sicuro.

Nel 1961, diventò Capitano dell’Olimpia, traghettando il club tra la generazione di Romanutti, Stefanini e Pagani a quella successiva, di Gianfranco Pieri e Sandro Riminucci. Nel 1963, smise di giocare a 31 anni, e diventò allenatore. Il Simmenthal, sempre avanti sui tempi, fece di lui il primo vero assistente nella storia del basket italiano. Rubini era un motivatore, un uomo carismatico, gestiva media, pubblico, arbitri, avversari e giocatori. Ma gli schemi, le strategie, le scelte degli uomini appartenevano a Gamba. Rubini era carisma, fascino, provocazione, gestione. Gamba era lavoro, sudore, lacrime. Rubini era intelligenza naturale, costruita sul marciapiede. Gamba era uno studioso. Insieme avrebbero conquistato l’Italia e l’Europa con l’Olimpia, poi anche in Nazionale si sarebbero ripetuti ma prima Gamba sarebbe stato il grande artefice della seconda metà dell’epopea varesina.

Quando decise di ritirarsi come giocatore, Gamba non sapeva che l’offerta di allenare accanto a Cesare Rubini avrebbe avviato una carriera che l’avrebbe spedito nella storia, membro della Hall of Fame di Springfield. Quando Adolfo Bogoncelli gli propose di allenare, la sua unica richiesta fu quella di potersi recare due volte all’anno negli Stati Uniti per aggiornamento. Ancora oggi considera quello l’elemento chiave della sua storia di allenatore, perché gli ha permesso – quando nessuno lo faceva – di aggiornarsi direttamente alla fonte, di studiare e al tempo stesso di scovare, vedendoli direttamente, gli americani migliori. Così ha portato a Milano tra gli altri Skip Thoren, Steve Chubin, Red Robbins, Arthur Kenney e in Italia elementi che l’Olimpia, non ritenendoli adatti alle proprie necessità, distribuiva ad altre squadre, come Doug Moe a Padova, Joe Isaac alla Pallacanestro Milano e Bob Lienhard addirittura a Cantù.

Probabilmente, l’unico momento brutto della sua esperienza all’Olimpia è legato al divorzio. Aveva avuto rassicurazioni che sarebbe subentrato a Cesare Rubini se Milano avesse vinto lo scudetto del 1972. Lo vinse, ma non successe nulla. Nel 1973, il terzo spareggio consecutivo con Varese, fu doloroso, avrebbe alimentato rimpianti eterni anche nei giocatori, ma ancora nulla.

In quel momento, la sua reputazione aveva superato di gran lunga il suo ruolo. Aveva offerte da numerose squadre, ma soprattutto di Varese, i rivali storici, che stavano per salutare Asa Nikolic. Fu un salto del fossato epocale. A Varese, Gamba avrebbe vinto due volte il titolo europeo scrivendo pagine leggendarie. Dopo, ha allenato portandola in alto l’Auxilium Torino (in seguito anche alla Virtus Bologna per due anni), ma la terza carriera l’ha vissuta in Nazionale.

La ereditò dopo gli Europei di Torino del 1979, a Mosca nel 1980 la guidò ad una incredibile e rocambolesca medaglia d’argento: il capolavoro fu la vittoria sull’Unione Sovietica in casa sua, con cui conquistò la finale dove la squadra arrivò in parte appagata cedendo alla Jugoslavia. Quell’impresa, la prima medaglia olimpica italiana, fu rocambolesca nei modi. L’Italia aveva perso con l’Australia di sette punti, ma Cuba aveva battuto l’Australia ancora di sette punti. Nell’ultimo giorno, era in programma Italia-Cuba: se l’Italia avesse vinto con meno di sette punti di scarto sarebbe stata eliminata; se avesse vinto con più di sette punti di scarto si sarebbe qualificata portandosi dietro l’Australia e dal momento che nella seconda fase le squadre entravano semplicemente portandosi dietro i risultati già acquisiti avrebbe cominciato con un bilancio di 0-1. Ma vincendo di sette avrebbero finito tutte e tre alla pari persino negli scontri diretti e sarebbe stata decisiva la differenza punti globale, in pratica la partita con il materasso Svezia. L’Italia l’aveva vinta di 15, Cuba di 12 e l’Australia di 9. Gli azzurri vinsero di sette esattamente così portandosi dietro Cuba ed eliminando l’Australia. Il risultato perfetto.

Gamba portò la Nazionale all’oro europeo di Nantes nel 1983, quando gli azzurri finirono imbattuti, cominciarono battendo la Spagna di un punto e finirono battendola una seconda volta, nettamente. In mezzo, ci fu la storica vittoria sulla Jugoslavia contrassegnata da una clamorosa rissa da saloon in cui Gamba, 51 anni, andò ad inseguire in tribuna Dragan Kicanovic che aveva sferrato un calcio a tradimento a Renato Villalta facendo deflagrare tutto. Gamba chiese scusa “ma il mio dovere è proteggere i miei giocatori”. L’Italia vinse l’oro per la prima volta, poi vinse il bronzo nel 1985 quando Gamba lasciò la panchina a Valerio Bianchini, salvo ritrovarla, in tempo per vincere un’altra medaglia agli Europei di Roma nel 1991, argento dietro l’ultima edizione della Jugoslavia prima del frazionamento.

Una carriera leggendaria senza alcun dubbio. “Ero a New York, alle finali del NIT, un torneo universitario, quando venni mostrato sul maxischermo come l’allenatore che aveva battuto l’Unione Sovietica a casa sua alle Olimpiadi del 1980. Mi fecero una standing ovation”, racconta uno dei tanti aneddoti che hanno percorso la sua carriera tra i canestri. “Sono stato il Capitano della Nazionale italiana a Roma nel 1960, la mia squadra a Milano ha vinto 10 scudetti, ho vinto un argento olimpico e un oro europeo senza perdere una sola partita. Nel 2008 mi chiamarono: avrei potuto allenare la Nazionale cinese a Pechino. Rifiutai solo perché era un lavoro adatto a qualcuno più giovane”, dice.

Il suo ultimo impegno come allenatore è stato guidare la Selezione del resto del Mondo all’Hoop Summit negli Stati Uniti. Doveva scegliere e guidare i migliori 18enni del pianeta, USA a parte. Tra questi ci sono stati prime scelte assolute del draft, Yao Ming e Andrea Bargnani, ci sono stati MVP della NBA come Dirk Nowitzki e tanti altri ancora. Buon Compleanno Coach!

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