L’assistente allenatore dell’Olimpia, Tom Bialaszewski, è stato ospite del podcast di ESPN, condotto da Adrian Wojnarowski (qui il link per ascoltarlo). Ha parlato della sua esperienza a Milano, della situazione attuale in Italia, della sua esperienza precedente nella NBA e del rapporto costruito negli anni con Kobe Bryant. Ecco il suo intervento.

LA SUA ESPERIENZA A MILANO

“Principalmente sono venuto per Ettore Messina, per la sua presenza, il nostro rapporto, la mia ammirazione per lui. Milano è stata un’opportunità doppia per me, prima di tutto professionale per la possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista, un’altra prospettiva, pormi anche in una situazione impegnativa, ideale per imparare. Ho guardato al basket europeo per anni, perché conoscevo Ettore fin dai tempi di Los Angeles, volevo imparare ed è diverso farlo quando ti immergi nelle operazioni giorno dopo giorno. E infine era anche un’esperienza personale imperdibile, per me, mia moglie, visitare posti nuovi, bellissimi, assaporare un’altra cultura, farlo con i miei figli che magari non ricorderanno tutto, ma sapranno che sono stati qui, hanno studiato in scuole internazionali. Questo li aiuterà a non avere confini nella loro testa quando saranno più grandi. L’Italia e l’Europa possono sembrare mondi lontani ma non lo sono, ho lavorato anche in Australia. Anche questo è stato un fattore importante”.

“E’ stata finora una grande esperienza formativa, rispetto alla NBA, l’impatto degli allenatori è maggiore perché è un basket più tattico, ci sono molti più adattamenti, ti costringe ad avere una mentalità un po’ più da allenatore di football nel modo in cui ti prepari ad ogni partita. Quando hai qualche giorno per prepararti puoi davvero avere un piano partita, che nella NBA con quattro partite alla settimana non è possibile fare allo stesso modo. Poi è più importante ogni singolo possesso, perché le partite durano 40 minuti, così se riesci a lucrare su un possesso qui e uno là hai un vantaggio, si cambia marcatura più spesso. Insomma, è tutto più tattico, e ho cominciato a guardare alle partite in un modo un tantino differente”.

LA SUA STORIA NELLA NBA

“E’ stato Mike Brown a portarmi a Los Angeles, poi è stato esonerato dopo poche partite nella stagione seguente e io ho lavorato ai Lakers con tre staff diversi, incluso quello di Mike D’Antoni. Ho lavorato con Ettore Messina e Quin Snyder, ma anche con Darvin Ham che è un mio grande amico. Sono stato esposto a tanti allenatori di qualità da cui ho appreso cultura ed esperienze. Tutto questo ha avuto un ruolo importante nella mia crescita e nel mio sviluppo. Ma vale anche per gli anni trascorsi ai Cavs in sala video da apprendista con Mike Malone. Sono stato fortunato, ho avuto tre allenatori in cinque anni a Los Angeles, ma un solo coach in altri posti. E un’altra fortuna è stata quella di lavorare con grandi assistenti”.

KOBE BRYANT

“Mi ha permesso di stare dentro il cerchio e di costruire un rapporto di fiducia. Con il tempo il rapporto è sfociato nell’amicizia, ma parlando di basket ho sempre saputo che non avrei mai potuto avere la sua prospettiva dal campo, perché comunque sono sempre un non-giocatore. Ma ho visto come vedeva le cose lui. Dopo un paio di anni all’intervallo usavamo il tempo a disposizione per guardare al video assist e palle perse ed era lui a mettermi sotto esame, poi con il tempo guardando le immagini la nostra era soprattutto una conversazione. E per la mia crescita è stato fantastico. Sono riconoscente agli allenatori che mi hanno aiutato, ma vale anche per questo rapporto che avevo con Kobe”.

“La cosa che ho capito di lui è che non voleva yes-men al suo fianco, voleva gente che fosse convinta delle proprie opinioni e non dicesse quello che lui voleva sentirsi dire. Alla fine, rispettava questo modello di comportamento. Era importante non essere intimiditi, dire Oh mio Dio, è Kobe Bryant, ma esprimere il proprio parere che non dev’essere per forza corretto, ma deve essere il proprio parere, così le conversazioni diventano discussioni amichevoli. Capitava che tornasse dopo due o tre settimane riaprendo un argomento. E’ stato un grande rapporto cestistico. Quello che gli proponevi, gli dicevi, gli facevi leggere lo processava con il tempo, non immediatamente. Aveva ovviamente opinioni forti, nette, ma le formava pensandoci su bene. E quando gli proponevi qualcosa, anche se non era d’accordo, rispettava l’impegno che ci avevi messo”.

“Il mio primo anno a Los Angeles, eravamo appena atterrati a San Francisco, lui era reduce da un infortunio, e dall’aeroporto siamo andati direttamente all’università di San Francisco per un allenamento credo all’1 di notte. Un’altra volta è successo a San Antonio in una palestra nel mezzo del nulla. Erano episodi estemporanei, quando eravamo a casa generalmente il suo orario erano le sei del mattino ed era affascinante vedere tutta la sua routine. L’impegno non è mai mancato neanche con tutto quello che aveva vinto”.

“Quando si ruppe il tendine d’Achille, avevamo cominciato a giocare bene, lui, Pau Gasol, Dwight Howard… Ero nella videoroom allo Staples Center, la porta durante le partite è aperta, e l’ho sentito arrivare dopo l’infortunio, poi ho sentito la voce di Gary Vitti (il fisioterapista dei Lakers – ndr) che parlava del tendine d’Achille. Mi si è fermato il cuore. Ho pensato alla stagione, che per noi era finita, ma poi ho visto lui sul lettino, con la moglie e le bambine, e a finire poteva essere stata la sua carriera. E’ stata la prima volta in cui l’ho visto vulnerabile”.

“Il giorno della sua morte eravamo a Trieste, avevamo giocato in trasferta, era sera, eravamo appena arrivati all’aeroporto. Coach Messina aveva appena radunato tutta la squadra sul bus per informarli che avevamo appena firmato un nuovo giocatore (Drew Crawford) e sarebbe stato all’allenamento il giorno dopo. In quel momento vedevo gente che cercava di attirare la mia attenzione, mio cognato mi stava chiamando su Facetime, in un attimo sul bus è successo di tutto. Kobe è morto, l’elicottero è caduto. Ovviamente, la prima reazione è stata di speranza, speranza che non fosse vero. Poi abbiamo cercato di raccogliere informazioni, ho parlato con mia moglie. E’ stato terribile, oltretutto stavamo per prendere l’aereo e quella era la notizia di un disastro aereo. Non è stato facile per nessuno gestire emotivamente quel momento”.

“In Italia la sua morte ha colpito di più, l’Olimpia poi è la squadra di cui per un periodo è stato proprietario di una quota. Ma è stato così dappertutto, ero stato con lui in Cina e avevo visto come lo consideravano. Qui mi ha impressionato l’affetto dei giocatori, dei tifosi, i momenti di raccoglimento sono stati toccanti, c’erano maglie sue dappertutto. La NBA sta pensando di fare un torneo di metà stagione, noi lo facciamo in Italia e siamo andati a giocarlo con le maglie viola e oro e so che nel nostro club hanno chiesto ai Lakers il permesso di farlo. E’ stato un grande segno di rispetto per lui e quello che ha significato per il basket e per l’Italia”.

“Quando mi sono stavo per sposare, gli dissi che avevamo intenzione di fare un viaggio in Europa. Lui prese un foglio e scrisse i posti dove dovevo andare, ironicamente il primo fu Milano, mi scrisse l’hotel, poi le altre tappe, i ristoranti, Milano, Firenze, Capri. Aveva messo il suo staff al lavoro per me. Quando ho firmato per Milano, l’ho avvertito poi mi è capitato di andare nel ristorante che mi aveva consigliato in luna di miele e non avevo visitato perché era agosto ed era chiuso. Allora, ho scattato una foto al menù e gliel’ho mandata”.

LA SITUAZIONE A MILANO

“Sono qui con mia moglie e i miei due figli di due e quattro anni, pratichiamo la cosiddetta distanza sociale. Milano ovviamente è nella Regione non più colpita, ma per ora è stata toccata meno duramente rispetto ad altre città dell’area soprattutto il centro. Siamo spaventati come tutti, stiamo in casa, cerchiamo di fare qualche attività, tenere occupati i bambini, essere creativi nel modo di passare il tempo. Ci sono degli inconvenienti, ma questo è un momento in cui la sicurezza è più importante del resto”.

“Già a febbraio, in Italia sono stati abbastanza attivi, anche quando ancora stavamo giocando misurarci la temperatura, all’arena o negli aeroporti era diventata prassi. Poi progressivamente sono diventati tutti più stretti nelle misure, prima nelle regioni più colpite poi nel resto del paese. Hanno fatto quello che potevano per mantenere la diffusione sotto controllo. La lega italiana è stata fermata velocemente, anche perché molte squadre sono del Nord Italia, l’EuroLeague è arrivata dopo, poi sono subentrate restrizioni anche nei viaggi e adesso sono aperti solo i supermercati e le farmacie”.

“Quest’area è stata colpita velocemente e duramente. La gente ha capito abbastanza in fretta, quando sono entrate in vigore le misure più restrittive si è notato subito il rallentamento forte del traffico, delle persone fuori, sono andato al supermercato e la gente era rispettosa delle regole, ordinata”.

“Abito in un complesso di sei palazzi che si affacciano tutti sull’interno, sul giardino, e ogni sera alle 18, a parte quando la temperatura è scesa e faceva troppo freddo, la gente si affaccia sul balcone, cantano magari l’inno nazionale oppure mostrano le bandiere italiane o magari bevono un bicchiere di vino e brindano a distanza. C’è un senso di unione, di vicinanza che si avverte chiaramente”.

 

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