Jasmin Repesa non si tira indietro. “Nessuno lo immagina, ma il Cedevita è una delle società meglio strutturate d’Europa”. Può dirlo perché il coach dell’Olimpia ha allenato la squadra di Zagabria, che sta soppiantando il grande Cibona come forza locale egemone, fino a pochi mesi fa. E ancora adesso nello staff capitanato da Veljko Mrsic figura Dino Repesa, figlio del coach ed ex giocatore nelle giovanili della Benetton Treviso, accanto ad Alessandro Gentile. Vinsero un titolo italiano Under 19 insieme.

Olimpia e Cedevita nello stesso girone è uno scherzo beffardo del destino, una partita particolare per Repesa: un po’ la presenza del figlio, poi di Mrsic che lui ha voluto come assistente al Cedevita e infine anche quella di Gianmarco Pozzecco che Repesa allenò alla Fortitudo, un rapporto turbolento che si chiuse male. Pozzecco finì fuori squadra e la Fortitudo vinse lo scudetto. Fu quello assegnato dopo il canestro rocambolesco sulla sirena di Ruben Douglas al Forum. Inevitabilmente, Repesa è sotto lo sguardo di tutti in questa partita. E’ la sua partita.

Repesa era un discreto giocatore ma dentro di lui bruciava la passione di allenare. Cominciò infatti molto presto ed ebbe successo istantaneo. Il Cibona, il club reso famoso da Drazen Petrovic che vinse due titoli europei, fu il suo biglietto da visita nel basket che conta. Ma era già un coach promettente: nel 1992 incontrò Dino Meneghin che si stava preparando con la Stefanel Trieste di Boscia Tanjevic. Fu una folgorazione: decise di chiamare il figlio, che stava per nascere, Dino appunto. E i 23 anni successivi sono stati un viaggio nell’universo cestistico. E’ stato al Tofas Bursa in Turchia per tre anni. “Ero un po’ intimidito all’inizio, è una città ottomana, ci sono tantissime persone con la barba lunga, in realtà è un posto molto americanizzato, da certe zone di Istanbul raggiungibile velocemente. Da altre no”, ricorda. La squadra ruotava attorno all’enorme classe di David Rivers, un regista che ha vinto tutto in Europa.

L’altro grande momento della sua carriera fu Bologna, la Fortitudo, cui regalò il secondo scudetto della sua storia ma anche una finale di Eurolega persa nella bolgia di Tel Aviv contro un Maccabi fortissimo. Bologna l’ha segnato. E’ dove Dino ha imparato a parlare italiano perfettamente, dove ha respirato l’odore rocambolesco del derby, dove si incamminava sotto i portici fino al Santuario di San Luca che domina la città, dove ha imparato ad apprezzare le crescentine e le tigelle con un formaggio fuso chiamato scquacquerone. Quando tornò a Bologna da avversario venne incoronato. Letteralmente. A Bologna ha allenato Marco Belinelli e Stefano Mancinelli; Milos Vujanic ed Erazem Lorbek; Matjaz Smodis e Carlos Delfino. Se ne andò dopo quattro anni, alla fine dell’era Seragnoli. Poteva andare al Real Madrid ma stava allenando la Croazia, una missione. Rinunciò per andare a Roma. Un nuovo progetto. Un’altra finale scudetto ma persa contro Siena. Poi Treviso ma nella fase finale dell’Impero verde. Riuscì però ad allenare Alessandro Gentile da bambino. Aveva allenato anche Ibby Jaaber e Brandon Jennings a Roma. Oltre all’ultimo Bodiroga.

Prima del Cedevita, è stato di nuovo al Cibona ed è stato in Spagna, a Malaga. Come allenatore è esperto, istrione, europeo fino al midollo nella ricerca di spazi, movimento di palla e di uomini. Vuole correre in contropiede, vuole aiuti e recuperi, vuole in difesa che la responsabilità dei singoli sia esaltata. Non vuole troppi palleggi, è attento ai dettagli, ama le rotazioni spinte per avere ritmi e pressione sempre alti. Allena in tre lingue, serbo-croato con Macvan, Barac e Simon; italiano con Gentile, Cinciarini, Cerella, Magro e Amato; inglese per gli altri, inglese per tutti. Guarda tantissimo i video, dell’Olimpia e degli avversari. Responsabilizza gli assistenti e non dimentica mai di elogiarli quando si vince. Se vede qualcosa che apprezza dice “zuper, zuper”, in Italiano intercala molte frasi con “sai”. Le sedute di tiro della mattina della gara sono molto tattiche. Il resto lo scopriamo giorno per giorno, come lui scopre Milano e l’Olimpia senza mai nascondersi. “Al pubblico chiedo di essere numeroso, il resto dobbiamo farlo noi”, ha detto fin dall’inizio. Ha chiuso le porte degli allenamenti perché per lui è un momento sacro e inviolabile, dove si costruisce la squadra e si forma il gruppo. Ogni tanto ferma l’allenamento e chiama l’urlo “O-limpia” tutti insieme.

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