Riproponiamo tutta insieme l’intervista in tre segmenti rilasciata da Mike James in occasione della sua presenza a Milano a fine luglio per le visite mediche e i test fisici.

Portland è la più grande città dell’Oregon ma non è certo una metropoli (“Ci sono tante cose da fare anche se non è Los Angeles”, dice Mike James). E’ situata nel nord ovest degli Stati Uniti, a un’ora di volo da Seattle, clima fresco, piovoso, con un fiume, il Willamette che la taglia in due, e le montagne tutte attorno, piene di verde. Qui è nato e cresciuto, Mike James, una sorta di autodidatta del basket. Eternamente sottovalutato. Come dicono in America gioca con un “chip on my shoulder”, espressione quasi intraducibile. Significa che gioca in sostanza come se ogni volta dovesse dimostrare qualcosa a qualcuno. “Sì, può essere – ammette – ma questo è un mondo in cui conta quello che hai fatto di recente, una stagione buona è solo una stagione buona perché puoi sempre tornare indietro e dover ricominciare daccapo. Così cerco di giocare ogni partita con questa mentalità”.

Il nuovo playmaker dell’Olimpia ha frequentato la Ulysses Grant High School di Portland, un posto da 1500 studenti e una buonissima tradizione sportiva. Tra i suoi studenti giocatori di football e baseball e l’ex playmaker NBA, Terrell Brandon. Nel 2008 James la portò al titolo dello stato dell’Oregon ma non venne reclutato lo stesso. “Non fu una sorpresa, sono venuto fuori tardi come giocatore e anche fisicamente”, ammette. Dovette andare in un junior  college dell’Arizona per continuare a giocare e poi a Lamar, in Texas, anzi sul Golfo del Messico. Segnò anche 52 punti in una partita, portò la sua squadra al Torneo NCAA eppure… “Eppure diventare un professionista era lontanissimo dai miei pensieri. Ero felice di giocare al college e di poter studiare senza pagare. Del resto non mi curavo. Fu il mio allenatore nell’ultima parte della stagione da senior a menzionare per la prima volta cosa sarebbe potuto accadere”, racconta. L’allenatore era Pat Knight, figlio del grande Bobby Knight (oro olimpico a Los Angeles 1984, tre titoli NCAA a Indiana), nonché mentore di Mario Fioretti.

James non fu scelto nei draft NBA, non ci andò nemmeno vicino, ma Knight aveva ragione. Sarebbe stato un professionista, prima in Croazia poi in Israele e quindi a Omegna. “L’Italia mi è piaciuta subito, la cultura, il cibo soprattutto. Omegna è stata un’esperienza divertente. Un motivo in più per tornare in Italia”.

La svolta della carriera di Mike James? Quando Vitoria lo prelevò dal Kolossus Rodi in Grecia portandolo immediatamente in EuroLeague. “Non fu del tutto sorprendente perché avevo già riscontrato interesse, anche qualche offerta. Ma per lasciare la mia squadra volevo la miglior situazione possibile e una squadra forte. Ovviamente il Baskonia era tutto questo. Una soluzione ideale per me. Quello che non mi aspettavo fu la capacità di inserirmi così in fretta”, racconta. Al Baskonia, Mike James ha giocato le Final Four di EuroLeague, un traguardo sfiorato anche nei due anni seguenti al Panathinaikos. “Non eravamo così quotati a inizio stagione, volevamo entrare nei playoff e poi vedere cosa poter fare, ma poi vincemmo qualche gara in trasferta, battemmo qualche buon team e nei quarti di finale vincemmo subito la prima partita. A quel punto avevamo raggiunto la consapevolezza dei nostri mezzi. E andammo alle Final Four”, dice James.

Gli ultimi due anni sono quelli che l’hanno imposto come uno dei migliori point-man d’Europa. Al Panathinaikos ha vinto due titoli greci e giocato due volte i playoff, battuto sempre dalla squadra che poi ha vinto l’EuroLeague. “Il Panathinaikos è stato una benedizione per me. Vivere ad Atene è stato stupefacente, anche solo per la storia che ti circonda. Tutti vogliono vincere, io ad Atene l’ho fatto due volte. Abbiamo fatto quello che potevamo anche in EuroLeague”.

Ma tra il primo e il secondo anno, James ha fatto in tempo a giocare 32 partite di NBA con i Phoenix Suns segnando oltre dieci punti a partita. “Era una cosa che dovevo fare, sentivo di dover provare. A mio avviso ho giocato bene, devo ritenermi soddisfatto anche se il modo in cui è finita mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Sapevo che stavano cambiando le cose da due settimane”. Ed è così che ha lasciato Phoenix, con una brevissima parentesi a New Orleans, ed è tornato ad Atene per completare l’esperienza al Panathinaikos con un’altra vittoria.

“Milano non ha dovuto fare un grande sforzo per convincermi a venire qui, non ha dovuto fare molto”, dice Mike James, il nuovo playmaker dell’Olimpia. In sostanza, è stato lui a scegliere l’Olimpia almeno quanto l’Olimpia ha scelto lui. “Volevo una squadra che mi permettesse di continuare a giocare in EuroLeague dopo che nei due anni al Panathinaikos sono riuscito a impormi come uno dei migliori giocatori d’Europa. Il Panathinaikos era un’ottima squadra, con aspettative molto elevate. Ma io volevo l’opportunità di avere un ruolo più centrale, maggiori responsabilità, anche vocali, essere un leader e vedere fino a dove posso portare una squadra in cui abbia questo tipo di ruolo. Quello che al Panathinaikos ovviamente avevano Nick, Chris, Gist”. Li chiama così: Nick è Calathes, Chris è Singleton (che però è andato al Barcellona) e Gist è James Gist.

Nell’ultima stagione l’Olimpia ha vinto il titolo italiano mentre James ha vinto quello greco. Ripetersi a livello nazionale è un obiettivo, ma sia la squadra che Mike ovviamente vorrebbero fare meglio in EuroLeague. James ha giocato una Final Four a Vitoria e due volte i quarti di finale al Panathinaikos. “Vincere alle volte è una questione di mentalità spiega. Non è che Milano non abbia avuto talento e buone squadre per l’EuroLeague negli ultimi anni ma capita che sia più importante la chimica. Mentalità significa che ci sono partite in cui semplicemente non puoi perdere. Al Panathinaikos qualche volta la differenza tra noi e gli altri era che sentivamo che non avremmo perso. Non importava cosa sarebbe successo perché avremmo vinto comunque. Questo era il nostro approccio che cambiava molte cose a nostro favore”, spiega.

Mike James è un realizzatore, lo è sempre stato. A Lamar segnò 52 punti in una partita, a Phoenix con spazio limitato ma nella NBA era oltre i 10 di media e in EuroLeague l’anno scorso era oltre i 16 in una squadra con un tasso di talento elevatissimo. In più gioca con energia contagiosa. “Ma io mi ritengo un giocatore di basket. I punti sono quelli su cui la gente sceglie di fermarsi, sono quelli che ti mandano sui giornali e che guardiamo più di ogni altra cosa. Ma sono un giocatore completo e qui voglio dimostrare di essere molto più di un realizzatore”, dice MJ. Sul suo ruolo, non ha dubbi. Mike è un point-man: “E’ il mio ruolo naturale – spiega – Lo scorso anno sono arrivato al Panathinaikos a stagione in corso e hanno fatto in modo che mi inserissi velocemente, anche accanto a Calathes. Ma in carriera ho sempre giocato solo da point-guard, incluso il mio primo anno al Panathinaikos sempre con Calathes. E’ il mio ruolo, quello in cui mi sento maggiormente a mio agio”.

LA CURIOSITA’

Chi segue Mike James sui social media avrà notato una sconfinata passione per il calcio. “E’ nata sui videogames – ammette – Soprattutto d’estate mi capitava dopo un allenamento lungo di restare in casa il resto della giornata e giocare ai videogames. Ma quelli sulla NBA e il football americano li trovavo noiosi, così mi sono messo a cercare alternative e ho sperimentato FIFA. Giocare ha generato la voglia di seguirlo di più, ha alimentato il mio interesse. Di qui la passione per il calcio in generale”.

 

 

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