Dino Meneghin era la spina dorsale dell’Olimpia che nel 1987 ottenne il Grande Slam. La vittoria più prestigiosa, attesa, fu quella di Losanna, la prima di due Coppe dei Campioni consecutive, vinta battendo il Maccabi. Per Dino fu una liberazione. “Fu una rivincita, perché quando anni prima giocammo la finale contro Cantù a Grenoble probabilmente disputai la peggior partita della mia vita. Zero punti, una cosa incredibile. Quando l’ho rivista sono stato male. Io ero quello che aveva giocato 10 finale di Coppa consecutive, ma con Varese. Tutti pensavano che qualcosa avrei dato in quel contesto, invece zero. Quando abbiamo vinto, qualche anno dopo, per me è stata una rivincita personale, e una vittoria straordinaria”.

Meneghin ha avuto due carriere, una a Varese, una a Milano (poi anche Trieste, ma più breve), ma nel frattempo anche una terza con la Nazionale. “Quando giochi in Nazionale hai un altro approccio mentale, un’altra pressione, non giochi per i tifosi di una squadra, giochi per tutti, anche per chi non è tifoso di basket. Io ho capito l’importanza della Nazionale la prima volta che giocai a Mannheim. Andai lì in modo un po’ sconsiderato, ma vidi questa palestra gremita di lavoratori italiani all’estero. Avevano i bandieroni, erano tutti vestito bene, vestito, cravatta, sembra un matrimonio. Vincemmo il torneo e ci portarono in trionfo. Ho ancora una foto di me portato in braccio, magro come un chiodo, da due tifosi. Poi il giorno dopo dovevamo tornare in treno e ci portarono in stazione con i fiori. Mentre andavamo via, ci salutarono piangendo e ci dissero di salutarci l’Italia, che mancava tantissimo. Da allora quando andavo all’estero cercavo le bandiere tricolori e pensavo di dover giocare per quelle persone. In Nazionale hai il peso morale di rappresentare una nazione”.

Lungo una carriera durata quasi 30 anni Meneghin ha incontrato avversari di ogni tipo, spessore e qualità, abbracciando generazioni differenti di giocatori. “Il problema è che più si andava avanti e più arrivavano questi “bastardi” che erano più alti, più grossi, più atletici e più veloci. Quelli che mi hanno fatto fare più fatica sono stati Vladimir Tkachenko, il russo di 2.20, 140 chili, che era anche rapido. Fisicamente mi ha messo in croce, era come marcare un armadio a quattro ante: quando avevi finito di girargli attorno era finito il primo tempo. Poi il mio idolo, Cresimir Cosic, che poteva giocare cinque ruoli, dal playmaker al centro, molto tecnico. Lui era il mio idolo: ho provato a imitarlo, ma senza successo. Poi Arvydas Sabonis: l’ho incrociato alla fine della mia carriera e all’inizio della sua. La prima volta, andammo a casa loro, con Milano, e tutti mi parlavano di questo Sabonis, forte, 18 anni, una bestia, veloce. Usciamo dallo spogliatoio e lui non c’è. Dico, meno male, salto una fatica. Arrivò invece all’ultimo momento, con la borsetta, si chiama in cinque minuti e va in campo. Ad un certo punto, sbagliamo un tiro e loro vanno in contropiede. Lui è davanti a me di quattro o cinque metri. Va su per fare un terzo tempo e aveva un braccio intero sopra il ferro e schiaccia. Ho detto “questo è forte davvero”. E l’ha dimostrato. Ma ho incontrato anche un cinese di 2.40, un coreano di 2.40, un turco che si chiamava Alp e in effetti sembrava una montagna delle Alpi”.

Un altro aneddoto riguarda Manute Bol. “Giocò a Forlì brevemente e lo incontrai con il povero Massimo Mangano alla presentazione del campionato alla Scala di Milano. Li vedo arrivare, siamo in anticipo, Bol era 2.35-2.40, Mangano era 1.70, forse, con i tacchi, e li invito a prendere un caffè. Entro in un bar per primo. Il cameriere, rimane con il vassoio in mano a guardarmi. Dico “Aspetta di vedere quello che entra adesso”… Quando siamo usciti il cameriere era ancora lì, con il vassoio in mano”. Pensa contro chi ho dovuto giocare”.

 

 

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