Kevin Punter è un figlio del Bronx, viene da New York, una città dove il basket è giocato in ogni angolo di strada e che ha dato anche all’Olimpia tanti campioni, da Arthur Kenney a Albert King, da Charles Jenkins a Jamel McLean in epoche più recenti. Punter però ha avuto un’evoluzione differente: è cresciuto nei playground (“Giocavo dall’alba al tramonto”, dice), ma poi è andato nel North Carolina e al college è emerso solo nell’ultimo anno, a Tennessee, quando il suo allenatore era Rick Barnes, che all’università del Texas si era occupato di Kevin Durant, LaMarcus Aldridge, PJ Tucker e altri ancora.

-Kevin, com’è stato crescere a New York per un giocatore di basket?

“E’ stato super. Tutti sanno che si gioca in tutti e cinque i distretti, in pratica tutti conoscono tutti e ogni estate si gioca in tanti tornei diversi, in parchi differenti, scenari diversi sparsi in tutta la città. E’ entusiasmante anche il solo trovarsi in quel tipo di ambiente. Ci sono giocatori di talento, è divertente farne parte. Mi ricordo che andavo al parco e mia madre mi diceva di tornare prima che fosse buio, ma io? Io non ascoltavo, restavo fuori a giocare. Doveva venire mio padre. Ero sempre fuori a giocare, tutto il giorno”.

-Ma ad un certo punto voleva smettere, non fosse stato per sua mamma.

“Non è che mi convinse, mi chiese di pensarci un po’ meglio. Ero in un momento difficile della mia vita e stavo pensando davvero di smettere. Pensai che forse il basket non faceva per me e che sarebbe stato meglio smettere. Lo dissi a lei. Mi richiamò e disse che se avessi voluto smettere mi avrebbe supportato al 100 percento. Ma non voleva che pensassi emotivamente, voleva che riflettessi e pensassi a fondo prima di prendere una decisione affrettata”.

-E’ esploso nell’ultimo anno di college. Cosa successe?

“Tanto lavoro, poi ho cambiato il tiro quell’estate, e ho cominciato a giocare per Rick Barnes. La mia mentalità, la mia etica lavorativa in realtà è sempre stata alta, ma entrando nella mia stagione da senior sapevo che avrei dovuto alzare il livello ancora un po’, per poter provare anche nella NBA. Così ho dedicato tutta l’estate a lavorare, lavorare, lavorare e migliorare. Quell’estate non ho preso un tiro fuori dall’area. Coach Barnes ha ricostruito la mia meccanica da zero. E’ servita tutta l’estate”.

-In Europa ha già vinto abbastanza, si considera un vincente?

“Ho sempre vinto, a chi pensa diversamente perché non l’ho fatto a livello EuroLeague dico che non è colpa mia. Ho vinto ai livelli in cui giocavo. Questa è la mia quinta stagione, ma la seconda a livello EuroLeague, ho fatto sempre bene. Ho vinto tanto in carriera, ma voglio continuare a lavorare per continuare a farlo”.

-E intanto si fa strada la sua reputazione come Clutch-Player.

“Lascio che siano gli altri a dirlo, quanto a me voglio solo essere me stesso. Se la gente lo pensa, ok, ma io voglio solo essere il miglior giocatore che posso essere per la mia squadra”.

-Adesso Milano.

“E’ una sfida, adoro le sfide, ho avuto a che fare con queste sfide per tutta la mia vita. Io sono a mio agio quando non sono a mio agio. Questa è una grande città, un grande club, grande coach, compagni. Penso che abbiamo a disposizione tutto quello che serve per essere davvero molto buoni”.

-Quali sono le aspettative per questa stagione?

“Guardo a questa come ad un’opportunità di fare qualcosa di speciale. Ho parlato con il Coach, mi aveva spiegato il tipo di squadra che stava costruendo, i giocatori già firmati e io ho visto una grande squadre, con giocatori che hanno vinto a livello di EuroLeague. Giocatori da cui posso imparare, acquisire conoscenza. Il Coach è stato nella lega, ha vinto titoli di EuroLeague, ha conoscenza e informazioni da passare per beneficiare me e poi aiutare i prossimi giocatori, perché ad un certo punto vorrò essere il veterano che aiuta i più giovani. Adesso sono uno dei giovani, cercherò di giocare, ascoltare ed essere me stesso”.

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