Aveva cinque anni quando Filippo Messina, di Catania, si trasferì per lavoro insieme alla sua bella famiglia, tre figli, a Venezia. Allora, il Signor Messina non immaginava che quella decisione – e altre che avrebbe assunto in seguito – avrebbe donato al basket italiano uno dei coach più vincenti e apprezzati per almeno due generazioni. A Venezia, Ettore Messina scoprì la pallacanestro, un allenatore che lo formò – Renato Vianello -, quello che lo lanciò verso la professione di allenatore dopo un derby perso – Tonino Zorzi – e conobbe Massimo Mangano che lo volle a Udine come assistente allenatore. Di fatto fu il momento in cui diventò un professionista. Ma ci fu un altro consiglio che il padre diede ad Ettore e si sarebbe rivelato decisivo. “Impara l’inglese che nella vita serve sempre”. Ettore eseguì, tre lezioni alla settimana. Nel basket l’inglese serve, non fa di nessuno un grande allenatore, ma in questo caso è servito per avere quello che si dice un “lucky break”.

Nel 1983, Alberto Bucci – emergente allenatore bolognese che aveva fatto molto bene a Rimini e Fabriano – venne chiamato ad allenare la Virtus Bologna dall’avvocato Porelli, cui è intitolato oggi il premio che in EuroLeague è riservato al miglior manager dell’anno. Bucci era un tattico, un motivatore e sapeva parlare ai giocatori. Ma non sapeva l’inglese. Alla Virtus aveva due americani, Elvis Rolle e Jan Van Breda-Kolff. Quest’ultimo arrivava dalla NBA. A Bucci serviva un allenatore che sapesse conversare con VBK. Pensò a Messina. Fu così che il 23° allenatore dell’Olimpia svoltò come coach. Nel 1983 si trovò ad allenare in uno dei più grandi settori giovanili italiani, in una piazza ambiziosa, una grande squadra. La Virtus nel 1984 vinse lo scudetto – per Messina fu il primo, anche se da assistente – e così cominciò una storia eccezionale.

A Bologna, Messina lavorò per Sandro Gamba, poi per Bob Hill, un americano che avrebbe guidato anche i San Antonio Spurs – curioso intreccio del destino – e arrivò alla Virtus da ex coach dei New York Knicks. Con Hill in panchina, la Virtus vinse la Coppa Italia, ma il tecnico americano – nel cuore dell’estate – decise di lasciare l’Italia e tornare in America, agli Indiana Pacers. La Virtus – che aveva Dan Peterson come uomo di fiducia di Porelli – scelse di promuovere, a 30 anni non ancora compiuti Ettore Messina. La sua stella nacque così.

A 30 anni, Messina diventò l’allenatore del grande Sugar Ray Richardson, quattro anni più anziano di lui, la grande stella NBA con una turbolenta storia personale. Fu Richardson quell’anno a guidare la squadra alla vittoria in Coppa Italia e poi in Coppa delle Coppe, il primo trofeo internazionale della Virtus, contro il Real Madrid, a Firenze. Il coach del Real era George Karl, un americano che ha fatto grandi cose nella NBA (Seattle, Milwaukee, Denver soprattutto) e il cui figlio Coby avrebbe in seguito giocato a Milano, sia pur molto brevemente. I primi quattro anni di Messina a Bologna non furono tutti “facili” come il primo. Ci fu proprio nella notte della Coppa delle Coppe l’infortunio grave di Roberto Brunamonti; in seguito Micheal Ray Richardson venne tagliato per motivi comportamentali e due volte la Virtus perse la semifinale scudetto. Ma nel 1993, quando già era stato nominato capo allenatore della Nazionale Italiana, coronò la prima parte della sua esperienza bolognese vincendo lo scudetto. Il 3-0 su Treviso in finale consentì alla Virtus di eguagliare l’Olimpia del 1985, completando un’edizione di playoff senza alcuna sconfitta.

Fino al 1997, Messina fu allenatore della Nazionale italiana e grazie a quell’incarico e le opportunità ad esso legate approfondì i rapporti con il mondo americano, come aveva fatto in precedenza lo stesso Sandro Gamba. Uno dei rapporti più forti fu quello con il leggendario coach di North Carolina, Dean Smith, di cui fu anche traduttore in un clinic in Italia definito dai presenti “memorabile”. Smith aveva allenato anche Michael Jordan a UNC, oltre a James Worthy, Sam Perkins, Kenny Smith, Brad Daugherty e tanti altri, incluso il “nostro” Dante Calabria. In Nazionale, Messina ebbe come momento più alto l’argento europeo di Barcellona, vinto sulla collina che domina la città, a St.Jordi. Quella città ha un significato speciale per lui: un anno dopo, nello stesso luogo, vinse la prima EuroLeague della sua carriera, sconfiggendo in finale l’AEK Atene in una battaglia senza esclusione di colpi, sotto i 60 punti, intensità, difesa e fisicità dominanti. Era la Virtus di Antoine Rigaudeau e Predrag Danilovic, la star appena rientrata dalla NBA, di Rasho Nesterovic, Alessandro Abbio. Vinse anche lo scudetto contro la Fortitudo, quello del famoso canestro da 4 punti di Danilovic.

Nella sua seconda reincarnazione virtussina, Messina vinse due volte l’EuroLeague: dopo quella del 1998, arrivò quella del 2001. Ma sostanzialmente erano due squadre differenti. Giocata a Monaco la finale del 1999 – vittoria in semifinale nel derby contro la Fortitudo, ma sconfitta contro lo Zalgiris nella gara decisiva -, la squadra venne in gran parte ripensata nell’estate del 2000. Rigaudeau venne spostato dal ruolo di playmaker a quello di guardia per fare posto a Marko Jaric, arrivarono David Andersen e Matjaz Smodis. Ma soprattutto l’astro nascente Manu Ginobili, 22 anni, scelto da San Antonio nel 1999 alla fine del secondo giro, proveniente da Reggio Calabria. Un colpo, aiutato dalla fortuna: la Virtus voleva Andrea Meneghin, ma Meneghin scelse la Fortitudo, e così ripiegò sulla seconda opzione, appunto Ginobili. Il ruolo era quello di cambio dell’ala piccola titolare, Danilovic. Ma dopo le Olimpiadi di Sydney, Danilovic a 30 anni decise di ritirarsi senza più tornare sui suoi passi. Ginobili venne promosso in quintetto, ebbe un avvio balbettante, poi esplose, fu MVP di tutto, con la sua energia, il suo atletismo, la fantasia e i canestri decisivi, tanti ad esempio nei quarti di EuroLeague contro Lubiana, in tutte e due le gare. La Virtus fece il Grande Slam, vinse tutto.

La stagione successiva, l’ultima a Bologna, fu rocambolesca: dopo la vittoria in Coppa Italia, ci fu addirittura un esonero, inaspettato e clamoroso, mai davvero giustificato. Il pubblico della Virtus rispose invadendo il campo prima della successiva gara casalinga, contro Trieste, e ritardò l’inizio della partita per proteste. Un fatto senza precedenti nello sport: a furor di popolo, Messina venne riportato sulla panchina bianconera. A posteriori fu un errore accettare, ma lui voleva portare quella squadra alla seconda vittoria in EuroLeague. Ci andò solo vicino: alle Final Four di Bologna, vinse la semifinale contro Treviso, che era pilotata da Mike D’Antoni, ma perse la finale contro il Panathinaikos. Proprio D’Antoni tentò per la prima volta il salto nella NBA e Messina ne prese il posto a Treviso. Vinse lo scudetto anche nella Marca e nell’amato St.Jordi giocò la finale di EuroLeague contro il Barcellona, la squadra di casa, ma la perse. Rimase tre anni: nella sua ultima stagione, lanciò un giovane italiano che sarebbe stato nel 2006 il primo giocatore scelto nei draft NBA. Era Andrea Bargnani.

Ma quando Bargnani al Madison Square Garden fu scelto dai Toronto Raptors, Ettore Messina era già da un anno a Mosca. Il CSKA era una superpotenza, ma non riusciva ad afferrare il premio più ambito, il titolo europeo, conquistato per l’ultima volta nel 1971. Nel 2005, l’allenatore era Dusan Ivkovic, il CSKA vinse tutte le partite di EuroLeague perdendo per la prima volta proprio la semifinale, per giunta in casa propria a Mosca. Messina fu scelto per allenare uno squadrone che lui portò subito al titolo, nella città incantevole di Praga. Aveva due giocatori che lo avevano accompagnato già a Bologna, David Andersen e Matjaz Smodis, aveva il grande Theo Papaloukas, JR Holden e Trajan Langdon, che invece aveva allenato a Treviso e oggi è general manager a New Orleans nella NBA. Tornò a vincere l’EuroLeague nel 2008 a Madrid contro il Maccabi il finale. Nel 2007 e nel 2009 perse due volte la finale contro il Panathinaikos, ambedue le volte per due punti di scarto. La prima, ad Atene, quindi in trasferta, finì 93-91 e ancora oggi molti la considerano la più grande partita mai vista a livello europeo. La seconda a Berlino fu una battaglia più spigolosa, con una grande rimonta che si fermò un attimo prima di concretizzarsi.

Nel biennio successivo fu il Real Madrid a ospitare le gesta di uno degli allenatori di riferimento del panorama europeo degli ultimi trent’anni. Due stagioni, prima di lasciare la squadra all’assistente Lele Molin e quindi a Pablo Laso, mentre Messina decise di varcare l’oceano e poi anche tutti gli Stati Uniti per approdare ai Los Angeles Lakers. Faceva parte dello staff di Mike Brown, ora assistente ai Golden State Warriors, all’epoca capo allenatore. Brown era stato l’head coach dei Cleveland Cavaliers quando Messina guidava il CSKA Mosca. Era così attratto da quel sistema di gioco che trascorse un’intera preseason in Italia, al seguito della squadra, un fatto epocale. Brown volle Messina ai Lakers.

Dopo quella stagione (“E’ un’esperienza formativa, alla fine sarò un allenatore migliore, che lo sia qui o in Europe”, disse subito al Los Angeles Times), rientrò a Mosca: vinse tutto in Russia, e aumentò il numero di Final Four giocate, diventarono ben 11 (nove volte ha giocato la finale), inclusa quella di Milano nel 2014, persa rocambolescamente contro la squadra del destino, il Maccabi Tel Aviv di quell’anno. Fu allora che Messina si sedette su una delle panchine più ambite al mondo, non solo per la qualità della squadra – aveva appena vinto il titolo NBA, con Tim Duncan e Manu Ginobili -, ma per quello che significa in termini di cultura del lavoro, metodologia, sviluppo. E per un allenatore gli Spurs significano poter lavorare accanto ad uno dei più grandi sempre, Gregg Popovich.

In cinque anni a San Antonio (all’interno dei quali figurano anche due estati azzurre), Messina ha conosciuto il clima dei playoff NBA ogni anno, incluso l’ultimo giocato senza alcuno dei mostri sacri storici, Tony Parker, Ginobili e Duncan che si era già ritirato (anche senza DeJounte Murray, potenziale stellina della squadra, infortunato). Nel 2018 ha allenato tutta la serie di playoff contro i Golden State Warriors, a causa dell’indisponibilità per un lutto familiare del capo allenatore Popovich. Quindi Messina ha visto per cinque anni il dorato mondo NBA, dall’interno, con la sua organizzazione, le strutture, il lavoro di equipe, la dilagante passione per le statistiche più sofisticate (le analytics). E ora può portare questo bagaglio di esperienze all’Olimpia.

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