Era il 25 novembre 1981. Si giocava nel palasport di Pesaro di Viale dei Partigiani, meglio conosciuto nel basket italiano come l’Hangar. Spazi angusti, strettissimi, dentro e fuori, impossibile muoversi, fattore campo alle stelle. Una pressione indicibile. La Scavolini era la portabandiera di una città di provincia ma con passione e tradizione che affondano le radici nella notte dei tempi. Ma non era mai stata una squadra da scudetto: nel 1960 era arrivata quarta, miglior risultato della storia. Al Palazzone di San Siro, a sancire il legame tra Pesaro e Milano, aveva vinto uno storico spareggio per la salvezza contro Mestre portando 77 pullman di tifosi a Milano. Valter Scavolini aveva così deciso di rilevare il club appartenente a Eligio Palazzetti per costruire una grande Vuelle. E l’aveva fatto. Sul mercato aveva preso proprio da Milano il grande Mike Sylvester – eroe della Coppa delle Coppe del 1976 – poi aveva rincarato la dose con Roosvelt Bouie, con Domenico Zampolini, ala della Nazionale che aveva segnato contro la Virtus Bologna il canestro della qualificazione alla finale del 1982, e nell’estate del 1981 insieme al coach Petar Skansi era arrivato Dragan Kicanovic, olimpionico con la nazionale slava a Mosca nel 1980. In finale aveva battuto proprio l’Italia di Sandro Gamba. Quella Scavolini era all’inizio di un’era d’oro in cui avrebbe vinto due scudetti. Ma nel 1981 doveva ancora dimostrare tutto e aveva scelto la notte del 25 novembre per dimostrarlo. Quella sera, davanti alle telecamere Rai, aveva incenerito il Billy. 110-65. Scarto record. Finì la regular season con 25 vittorie e sette sconfitte. Prima.

Ma quella notte, quel meno 45, aprì una ferita che l’Olimpia avrebbe ricucito. In estate aveva acquistato Roberto Premier da Gorizia e Dino Meneghin da Varese rinunciando a Dino Boselli. Ma Meneghin si ero rotto subito e l’Olimpia era partita molto piano. Quando a fine novembre entrò nell’Hangar di Pesaro non era pronta. Venne ripassata ma prese nota. Al rientro di Meneghin, il Billy si trasformò, finì la stagione regolare al terzo posto e ritrovò Pesaro in finale, la prima nella storia della Vuelle. L’Olimpia di Dan Peterson aveva John Gianelli accanto a Dino Meneghin, aveva ancora Toio Ferracini e giovani gladiatori come Franco Boselli e Vittorio Gallinari. Il 2 maggio, a Pesaro, una domenica, vinse 89-86. Sullo stesso parquet in cui era stata umiliata a fine novembre. A fine partita negli spogliatoi “Kicanovic voleva uccidermi – raccontò D’Antoni – ma io ero tranquillo perché avevo vicino Meneghin e sapevo che mi avrebbe protetto”. Tre giorni dopo si tornò a San Siro e il Billy vinse di uno una partita rocambolesca. 73-72, stoppata decisiva di John Gianelli su Mike Sylvester. Fu una gara rocambolesca perché Skansi tenne in panchina Kicanovic per tutto il primo tempo. Nessuno ha mai davvero capito perché successe. Milano vinse lo scudetto, il primo dell’era Peterson-D’Antoni-Meneghin.

Nelle immagini confuse Rai dell’epoca la stoppata di Gianelli su Sylvester.

 

Nel 1935 nacque a Tavoleto il più grande giocatore pesarese della storia. Sandro Riminucci. L’avrebbero ribattezzato l’Angelo Biondo per l’eleganza, l’atletismo. Era una guardia con il canestro nel sangue, creativo. Fece tutto il settore giovanile a Pesaro. Teneva la città sul palmo della mano. “Poi vinsi un titolo juniores battendo in finale il Borletti e Rubini pensò fosse meglio avermi dalla sua parte…”, scherza ma non troppo perché a quell’epoca i giocatori si sceglievano così. Anche Pieri venne preso in base allo stesso criterio. “Pesaro mi ha permesso di sognare e a Milano ho coronato i miei sogni”, racconta. All’Olimpia, Riminucci avrebbe vinto nove scudetti, tutti insieme a Gianfranco Pieri che era triestino. Vinse anche la Coppa dei Campioni nel 1966. E segnò 77 punti in una partita che lui stesso definisce “polemica” contro La Spezia. “Il coach della Nazionale, Nello Paratore, non mi aveva convocato perché l’avevo criticato alle Olimpiadi di Roma del 1960. Nella partita per il bronzo con l’Unione Sovietica lui voleva limitare i danni come facemmo e io volevo provare a vincere pur sapendo che sarebbe stato impossibile. Lo dissi. Rubini voleva prendersi la rivincita. Nane Vianello che era il detentore del record con 67 punti mi aiutò a battere quel primato. E’ la prova del tipo di spirito che c’era in quel Simmenthal”, dice. Dopo Riminucci sarebbe arrivato un altro pesarese, il Ragno, Franco Bertini (vinse lo scudetto nel 1958/59) che in seguito dopo una parentesi a Varese sarebbe tornato a casa, avrebbe allenato e fatto il giornalista.

Nel 1985 l’Olimpia ritrovò Pesaro in una finale scudetto meno attesa della precedente. Milano aveva Joe Barry Carroll e Russ Schoene. La Scavolini aveva vissuto una stagione turbolenta. Un giovane coach – oggi a Bergamo – Giancarlo Sacco pilotò la squadra alla vittoria in semifinale contro Caserta dopo essere entrata nei playoff da ottava. Ma la finale non ebbe storia. Milano vinse in casa e poi sbancò l’Hangar senza troppi problemi con Carroll commosso in mezzo al campo a ricevere l’abbraccio selvaggio di Roberto Premier. Ma Pesaro era una realtà: l’Olimpia l’avrebbe ritrovata nella finale di Coppa Italia il 16 aprile 1986 a Bologna. Fu uno spettacolare 102-92. L’Olimpia aveva Cedric Henderson, il giovane levriero che Dan Peterson sguinzagliava su qualunque avversario, prendeva valanghe di rimbalzi e tirava giù rimbalzi a raffica. Quell’anno l’Olimpia vinse lo scudetto battendo Caserta ma non raggiunse la finale di Coppa dei Campioni beffata nell’ultimo turno del girone finale. L’anno seguente, quello del Grande Slam, sempre a Bologna la Tracer vinse 95-93 contro Pesaro confermandosi avversario impossibile. Ma nel 1988 la Scavolini dell’eterno rivale Valerio Bianchini con Darwin Cook e Darren Daye, con Walter Magnifico, Ario Costa e Andrea Gracis vinse il suo primo scudetto 3-1 superando in finale la Philips campione d’Europa. Erano gli anni in cui la rivalità tra i due club toccò i picchi più elevati. La stagione seguente l’Olimpia vinse il quarto scudetto in cinque anni superando Pesaro in semifinale e Livorno in finale. La semifinale fa ancora discutere: fu quella in cui l’Olimpia vinse a tavolino la partita in trasferta perché Meneghin colpito da una monetina non se la sentì di rimanere in campo (in un libro scritto con Flavio Vanetti in seguito avrebbe ammesso che le condizioni fisiche gli avrebbero permesso di rimanere in campo ma dopo tanti maltrattamenti subiti su tanti campi – una monetina l’aveva colpito anche a Roma nella finale scudetto del 1983 – aveva scelto di non sopportare più quel tipo di incidente).

Daniel Hackett e Andrea Cinciarini avevano cominciato a giocare assieme a Pesaro, sui campetti di un oratorio e naturalmente alla Vuelle. Cinciarini debuttò in Serie A in una vittoria sull’allora Breil Milano a 17 anni. Hackett in quel momento era a Los Angeles a intraprendere un percorso differente. Nel dicembre del 2013 Hackett diventò un altro grande pesarese a vestire la maglia dell’Olimpia: scelse di giocare con il 12 per onorare Antonello Riva. Hackett rimase due anni vincendo uno scudetto. Quando andò via, il suo posto nell’estate del 2015 lo prese Andrea Cinciarini: il Cincia è il primo pesarese a figurare tra i capitani dell’Olimpia, un onore che neppure Riminucci è riuscito a ricevere.

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