Il tiro di Matt Janning in gara 6 della finale scudetto toccò un ferro, poi l’altro e infine finì fuori. Grande rimbalzo di Nicolò Melli e palla a Curtis Jerrells. Situazione di parità, la stagione sul filo. Big Curt non è mai stato carente di personalità e non è mai stato necessariamente condizionabile dalla pressione. Quando giocava a Baylor segnò la tripla della vittoria contro Kansas, una sfida a quei tempi impossibile. Così quella sera a Siena, Jerrells portò avanti la palla, poi si arrestò facendo trascorrere un paio di secondi. Alessandro Gentile voleva la palla. E molti motivi per pretenderla. Jerrells lo sapeva. Ale aveva giocato una gara 6 stratosferica, aveva 23 punti all’attivo. Jerrells? Un solo canestro, in entrata, pochi attimi prima. Jerrells ignorò Gentile. Gentile se ne accorse e gli fece solo un cenno: guarda il cronometro. Curtis eseguì il suo classico movimento, in avanti, saltello all’indietro, palla raccolta e tiro dalla lunga. “Ho capito subito che sarebbe entrata”, disse. Aveva cominciato ad esultare prima che la palla entrasse, ma a modo suo, un ringraziamento al cielo e uno alla panchina. Poi è stato l’inferno. Nessun canestro identifica la stagione dello scudetto numero 26, meglio di quello della vittoria in gara 6. Nessun singolo canestro identifica un giocatore e la sua permanenza a Milano come quello. Ci sono gesti indimenticabili che hanno identificato momenti storici dell’Olimpia. Il tuffo di Bob McAdoo, i crampi di Dino Meneghin, la rissa di Roberto Premier, la stoppata di John Gianelli, il dito a puntare il petto di Alessandro Gentile, lo sputare sague urlato da Dan Peterson. Singoli gesti limitativi che negano ai loro protagonisti molte altre cose, forse più importanti, no di sicuro più importanti. Ma non nel caso di Curtis Jerrells, il figliol prodigo che sta per tornare a casa.

La storia di Curtis Jerrells a Milano è stata una lunga onda, alterna, momenti difficili, critiche aspre e il suo sguardo scambiato ogni tanto per arroganza che nascondeva invece un’incrollabile fede in se stesso. Jerrells, riemerso dalle ceneri, in gara 6 a Sassari quando Daniel Hackett non c’era. Jerrells devastante in gara 1 di finale, 26 punti, record personale, la difesa di Siena smantellata, sbriciolata, devastata. Jerrells e “The Shot” in gara 6. Jerrells.

Ma Curtis aveva impiegato un po’ per sfondare a Milano. L’Olimpia che vinse lo scudetto nel 2014, perse cinque gare nel girone di andata, venne presa a pallate a Cantù e andò a prendere Hackett dal mercato quando molti chiedevano la testa di Jerrells. Eppure l’Olimpia e il suo coach di allora Luca Banchi fecero un’altra scelta rinunciando a MarQuez Haynes per dare spazio a Jerrells anche come guardia. Nelle Top 16 di EuroLeague, quando giocò a livelli stratosferici (mai una gara senza andare in doppia cifra), Jerrells inventò una definizione perfetta per il suo ruolo nella squadra. “Io sono la Wild-Card, il giocatore che entra e porta in tavola quello che serve in quel momento”. E’ il ruolo che poi avrebbe occupato all’Hapoel Gerusalemme la stagione passata, la migliore cifre alla mano della sua carriera, giocando per Coach Simone Pianigiani.

Il momento più interessante di quella stagione di Curtis fu la gara di ritorno della prima fase di EuroLeague con l’Efes, una partita in cui Jerrells non fece neppure un canestro ma che l’Olimpia vinse rimontando da meno 15 nel terzo quarto. Nel finale di partita senza alcun rispetto per la propria incolumità, Jerrells andò a sfidare, contendere ogni pallone ai lunghi dell’Efes sotto canestro. Vinta la partita, mentre la squadra completava il suo tour di applausi e high five in un Forum delirante, Jerrells esultava come nessun altro, totalmente ebbro di gioia per la vittoria, per la rimonta e totalmente incurante degli zero punti segnati che per un realizzatore nato come lui devono essere stati un’anomalia se non un affronto personale, autoinflitto. Quello fu il momento in cui Jerrells diventò senza dubbio un uomo-squadra. La sua stagione cambiò.

Texano di Austin, terra di football, Jerrells ha il fisico del culturista, grandi spalle, grandi pettorali, gambe muscolose ma ha sempre sognato di diventare un giocatore di basket. Nella storia della Baylor University di Waco, in Texas, Jerrells è stato a suo modo un giocatore storico. La scuola era uscita da un disastro, una storia bruttissima culminata con un omicidio addirittura dentro la squadra, che lo staff aveva cercato di coprire gettando discredito sulla vittima. Smascherata la vicenda, il programma cestistico era stato raso al suolo tra sanzioni, squalifiche, cattive abitudini, autodisciplina. Il coach, Dave Bliss, venne ovviamente licenziato e al suo posto arrivò Scott Drew, figlio del coach di Valparaiso, fratello del Bryce Drew che giocò nella NBA e anche in Italia a Reggio Calabria. Drew doveva ricostruire il programma di Baylor, ripulirlo, ritrovare credibilità e aveva bisogno di reclutare qualcuno che accelerasse il processo. Lo individuò in Jerrells e fu così che per Baylor, Curtis si trasformò in una figura in un certo senso decisiva anche al di là delle sua comunque strepitosa carriera universitaria.

Finito il college, lasciata Baylor in buone mani e destinata a stagioni superbe, Jerrells transitò per i San Antonio Spurs ma senza resistere fino in fondo. E così nacque la sua carriera europea, al Partizan, al Fenerbahce, al Besiktas (più una brevissima apparizione spagnola, a Murcia) e infine Milano. “Io ho questa capacità di segnare – spiega – che non tutti hanno ma da professionista ho cercato di migliorare il playmaking, la difesa, le letture. E di essere meno prevedibile: il mio coach al Partizan mi disse che ero scontato perché, da mancino, se andavo a sinistra lo facevo per attaccare il ferro e se andavo a destra lo facevo per poi arrestarmi e tirare da fuori. Aveva ragione”. Jerrells ha fisico da guardia, ama avere la palla in mano e ha una statura più da playmaker. Tira meglio dal palleggio, in step-back, che sugli scarichi, da fermo. Quando l’Olimpia vinse gara 2 dei playoff con il Maccabi, lui fu Mvp di giornata in EuroLeague. Un bel salto in alto per un giocatore che sembrava destinato al taglio.

“Il basket è una questione di ritmo, di fiducia. Mi ero un po’ perso all’inizio ma la fiducia avvertita attorno mi è stata utile e quando è stato importante risollevarsi l’ho fatto”, disse.  Il suo motto infatti è “Respond”, “perché nella vita non conta come vai giù ma come rispondi alle avversità”.

Andò via dall’Olimpia per accompagnare Keith Langford a Kazan. Ma il legame con Milano non si è mai interrotto. Messaggi, telefonate, ammiccamenti, sempre in attesa che ci fossero le condizioni giuste. Interrotta la sua storia vincente con l’Hapoel, con Pianigiani a Milano, le condizioni più che giuste si sono rivelate perfette. Bentornato Mister Shot.

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